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La collezione del Nazareno rischia di decorare un albergo

Fabrizio Lemme

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In comodato troverebbe adeguata sistemazione nel Museo del Barocco di Ariccia

Nell’aprile 2004, nella bella cornice dell’Accademia Nazionale di San Luca, ho assistito a una mostra organizzata da una valente storica dell’arte, Angela Negro, dal titolo «Il ritratto segreto» (catalogo Campisano Editore).
Come risulta dalla bella «premessa» redatta dalla studiosa, le opere esposte in mostra, riferibili a pittori importanti (quali Giovanni Battista Gaulli detto Il Baciccio, Abraham Brueghel, Niccolò Berrettoni, Giuseppe Bartolomeo Chiari e Sebastiano Conca) o meno importanti ma sempre significativi (quali Michelangelo Ricciolini, Giacomo Triga, Gaspare Serenari, Giovanni Stanchi, Vincenzo Milione o Jean François Courtois detto il Borgognone) oppure anonimi non identificabili, apparivano testimonianza unitaria di un’abitudine invalsa, in epoca barocca, nella Scuola del Nazareno: ogni rampollo di nobile famiglia che vi transitava avrebbe dovuto lasciare all’istituto, come «pièce de réception», un documento del suo passaggio, normalmente un’opera di pittura.

La raccolta, appunto per il suo valore di testimonianza unitaria e di un costume artistico praticato a Roma, aveva un altissimo interesse, oltre che sul piano storico anche su quelli iconografico e iconologico. Come un grande interesse riveste anche un altro insieme ivi ospitato, il Museo Mineralogico, che include macchinari scientifici e volumi antichi ed è frutto della donazione del cosiddetto re Sacrestano, Giuseppe I, imperatore del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica. Infatti, l’istituto Nazareno, realizzato nel 1622 dall’Ordine degli Scolopi (o delle Scuole Pie), fondato da san Giuseppe Calasanzio, era stato il primo esempio, nell’aristocratico Stato Pontificio, di istituto di istruzione aperto ai giovani più qualificati, anche a quelli appartenenti ai ceti popolari, per consentire loro l’accesso all’istruzione superiore. Questa, a sua volta, consentiva addirittura l’accesso alla nobiltà di toga, che veniva acquisita attraverso l’esercizio di alte cariche pubbliche. Un esempio di interclassismo, anzi di mobilità delle classi sociali, dunque, accentuato quando, circa trent’anni dopo la sua fondazione (quindi, nella metà del secolo XVII), l’istituto era stato aperto anche a convittori a pagamento, trasformandosi progressivamente in una delle più prestigiose scuole romane.

Nel secolo XVIII il Nazareno divenne centro del moderato illuminismo fiorito nello Stato Pontificio e in esso studiarono anche giovani lombardi (come Pietro Verri) o veneziani (come Francesco Algarotti), entrambi tra i grandi fari della cultura italiana nell’epoca dei lumi. E dal Nazareno trasse origine la cosiddetta Accademia degli Incolti che ebbe nel XVIII secolo la sua punta massima: da tale Accademia è invalsa la pratica della «pièce de réception», di cui ho parlato all’inizio di questo articolo. I giovani convittori, come recitavano componimenti da loro stessi scritti, di carattere religioso, scientifico e umanistico, dovevano appunto donare un dipinto, per testimoniare concretamente la loro vocazione alla cultura. Di qui la formazione della collezione, scientificamente indagata da Angela Negro, che unisce, oltre a una salda preparazione storica, anche la capacità di conoscenza, ossia quella virtù mediatica che fa dello storico dell’arte un conoscitore o, come dicono Oltralpe, un connaisseur.

La collezione è stata vincolata con il più robusto degli strumenti di tutela: la inseparabilità dei beni, prevista dall’art. 5 della L. 1089/39 e poi dall’art. 10/3 lett. e) del D.Lgs. 42/04, attualmente vigente. Ma i vincoli di legge sono a volte travolti dalle vicende economiche. Il glorioso Nazareno è oggi diventato, in larga parte, sede del P.D. (non a caso si parla, con termine giornalistico, di «patto del Nazareno» per un accordo elettorale che sarebbe stato stipulato tra il partito di maggioranza relativa e l’ex premier Berlusconi); la parte restante, è destinata ad accogliere un albergo a cinque stelle, meta quindi di magnati o nuovi ricchi, visto che è posta al centro della capitale. A questo punto è lecita la domanda: che ne sarà della collezione? Adornerà l’albergo a cinque stelle, come, del resto, la nota collezione di pittura veneziana che faceva capo ad Angelo Terruzzi adorna, oggi, il romano Hotel Hilton?

Rammento un verso di Virgilio: «anche le cose hanno le loro lacrime» (sunt lacrimae rerum: Eneide, I, 462) e quindi anche la collezione del Nazareno avrà le sue lacrime, quando sarà ammirata non più da giovani di belle speranze, quali erano i convittori nell’Età barocca, ma da donne incipriate e da arricchiti distratti! Angela Negro, con la quale ho recentemente parlato è terrorizzata a tale prospettiva e mi chiede come si possa evitarla.

Le ho indicato due possibili soluzioni: la prima, sarebbe una vendita in blocco di tutta la collezione, visto che il vincolo apposto ne proibisce lo smembramento, non l’alienazione. Ma chi si andrebbe a comprare, con la crisi in atto, una collezione così estrosa e singolare, non separabile e quindi insuscettibile di una rivendita speculativa?
D’altra parte anche gli acquirenti istituzionali, che erano le banche, in questo momento non dispongono di risorse puramente improduttive.

La seconda soluzione appare quindi più praticabile: trasferire la collezione presso un’istituzione pubblica, interessata a custodirla e a valorizzarla, con lo strumento del contratto di comodato (art. 1803 e ss. c.c.), che prevede la traslazione non della proprietà ma dell’uso e la revocabilità in qualsiasi momento, «ad nutum domini» (art. 1810 c.c.).

Ho fatto un nome, quello che ritengo più appropriato: il Museo del Barocco Romano, istituito nel 2007 ad Ariccia, in Palazzo Chigi, che ospita oltre quattrocento dipinti, tutti riferiti a quella splendida stagione fiorita tra gli inizi del Seicento e la fine del Settecento. Il Museo ha ancora degli spazi disponibili grazie al recente restauro, accuratamente condotto, di un’ala dell’edificio, precedentemente fatiscente. È diretto da un conservatore eccezionale, Francesco Petrucci, la cui notevole preparazione si unisce a un amore non comune per il proprio lavoro. In quella sede, la collezione del Nazareno potrebbe essere non solo custodita, ma anche valorizzata, come testimonianza notevolissima di quella cultura che ne giustifica l’esistenza e si accentuerebbe quella valenza del museo per gli studi sul Barocco romano, che già ha ampiamente acquisito. Gli altri musei della capitale (quelli nazionali: la Galleria Nazionale d’Arte Antica, la Galleria Corsini, la Galleria Spada) o municipali (Palazzo Braschi, i Musei Capitolini) o la Galleria dell’Accademia Nazionale di San Luca, dispongono di un patrimonio largamente superiore agli spazi espositivi, che vengono utilizzati a rotazione. Ecco perché non vedo alternative.

Una cosa comunque è certa: la Galleria del Nazareno non può andare a decorare un albergo, perché la sua sofisticata e intellettuale origine è cosa diversa dalla pittura «da cartolina illustrata» di altre collezioni, che possono anche decorare un albergo. Se avesse una tale destinazione, essa sarebbe irreparabilmente pregiudicata; «peggio che un delitto, verrebbe commesso un errore», secondo la nota immagine di Joseph Fouché.

Fabrizio Lemme, 17 maggio 2016 | © Riproduzione riservata

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