La classifica mondiale delle mostre più visitate: nel mondo la collezione Morozov, in Italia la Biennale

Per la prima volta documenta a Kassel registra un sensibile calo di visitatori: colpa di una mostra troppo povera di opere e appesantita dallo sperimentalismo? Intanto a Venezia la Biennale dei sogni e delle donne centra un nuovo record e a Parigi la collezione Morozov incanta non soltanto per l’effetto guerra. Sale la moda, ormai partner del contemporaneo che continua a prevalere sull’antico

Franco Fanelli |

Vienna, Kunsthistorisches Museum, un giovedì dello scorso febbraio. Deserta o quasi la Kunstkammer, scrigno europeo di arti applicate (highlight la saliera di Benvenuto Cellini); le mummie della collezione egizio-orientale attraggono qualche curioso in più. Molto più affollata la Pinacoteca. Qualche scolaresca, molti turisti italiani. Sono qui gli Antichi maestri, tra i quali il protagonista dell’omonimo romanzo di Thomas Bernhard quotidianamente coltiva la sua ossessione. C’è anche «L’allegoria della Pittura», un Vermeer «metapittorico», forse un autoritratto di spalle. Non «iconico», come si suol dire, al pari della «Ragazza con l’orecchino di perla», ma intanto Svetlana Alpers, grande studiosa del Seicento olandese, lo ha messo in copertina per il suo saggio più celebre.

Guardiamo le persone che gli sfilano davanti. Gli è concesso qualche secondo in più (pochi) rispetto agli altri capolavori contenuti in quelle sale. Vermeer è pur sempre Vermeer, ma intanto è normale chiedersi se tra le molte persone che osservano quel dipinto senza particolare attenzione, o che gli passano davanti distrattamente, c’è qualcuno che da un mese e più ha prenotato il biglietto per una delle mostre del 2023, la grande retrospettiva dedicata al pittore olandese in corso (ma è già sold out) al Rijksmuseum di Amsterdam, dove il grande assente è proprio il quadro che Vienna non ha sinora concesso.

La psicologia del visitatore di mostre blockbuster non è complessa, ma non esclude paradossi, ad esempio quello appena descritto. E include l’abitudine di scambiare la visita a una mostra per quella a un museo. Ad esempio, al Kunsthistorisches c’è sino al 25 giugno una bella retrospettiva sul tema del nudo di Georg Baselitz, che colloca sapientemente le sue figure capovolte tra quelle ortodossamente in piedi o sedute degli Antichi maestri e questo può essere un modo per visitare in maniera diversa un museo, soprattutto da parte di chi a quel museo, ad esempio i viennesi, ci ha fatto l’abitudine.

Da qualche tempo, del resto, l’arte contemporanea fa da traino all’antico, pur essendo il Kunsthistorisches di Vienna un museo assai visitato a prescindere, anche se il turismo si muove con più avidità verso i «luoghi» di Klimt e Schiele, il Leopold o il Belvedere, proprio come ad Amsterdam Van Gogh fa molta concorrenza ai Vermeer del Rijskmuseum. Il «fattore sede» gioca ovviamente un ruolo determinante nell’afflusso di visitatori: è evidente che organizzare una mostra di Giacomo Boni, uno dei padri dell’archeologia moderna italiana, nel Parco Archeologico del Colosseo, uno dei siti più gettonati al mondo, garantirà i circa 2 milioni e mezzo di biglietti staccati registrati nella nostra classifica.

E, checché se ne dica, la Biennale di Venezia si gioverà sempre della sua storia, certo, ma anche dell’incantevole cornice, come del resto la mostra di Anselm Kiefer, svoltasi in contemporanea a Palazzo Ducale. La Biennale (terza tra le mostre con biglietto a parte) chiude con 800mila visitatori (+35% rispetto al 2019), Kiefer (con biglietto integrato alla visita del palazzo) a oltre 988mila. Per questo, da quando l’arte contemporanea è diventata un prodotto di consumo culturale e turistico molto diffuso (e da quando ha aumentato il periodo di apertura, sostanzialmente dalla primavera all’autunno, lo scorso anno con 24 giorni in più rispetto ai 173 della precedente edizione) non teme più di tanto la concorrenza di documenta negli anni (ogni dieci) in cui le due mostre coincidono. In più, nonostante l’arte moderna e contemporanea continuino a presidiare i primi posti della classifica, la mostra di Kassel ha registrato per la prima volta nella sua storia un calo nell’afflusso di visitatori. I 738mila ingressi del 2022 equivalgono a un -17% rispetto agli 891.500 del 2017. Che cosa succede?

A Kassel minimizzano, sostenendo che si tratta di un eccellente risultato considerando che si veniva da quasi due anni di pandemia e al netto delle accuse di antisemitismo che hanno colpito alcuni artisti scelti dal collettivo curatoriale indonesiano, i ruangrupa. Una motivazione bizzarra, quest’ultima, perché si sa che spesso certe polemiche fanno lievitare il numero dei biglietti venduti. E se invece si fosse semplicemente trattato di una brutta mostra, anzi di una non mostra, com’è stata definita, molto sperimentale sì, ma totalmente priva di appeal visivo? Se così fosse, il 2022 si farebbe portatore di un importante avviso ai naviganti (e ai curatori): l’arte visiva, ancorché politicizzata, ambientalmente sostenibile, collettivizzata, concettualizzata ecc. deve conservare una considerevole percentuale di cose da vedere, anzi visivamente efficaci.

La voglia di piacere estetico e di sconfinamenti


Hito Steyerl è un esempio. Pur essendo un’artista tra le più attente a temi politici, sociali, ambientali e antropologici, abbina a un’innegabile chiarezza espositiva in sede saggistica un coinvolgente utilizzo delle nuove tecnologie. Risultato: 897.125 visitatori a Seul e secondo posto nella classifica delle mostre con biglietto dedicato. Al sesto posto c’è Yayoi Kusama (670.910 visitatori a Tel Aviv), che sulla spettacolarità visiva ha costruito molta parte del suo lavoro e del suo stesso personaggio. Quanto ai temi, Cecilia Alemani alla Biennale di Venezia ha centrato l’obiettivo in virtù di tre elementi: la forte presenza femminile, l’intramontabile fascino del Surrealismo e una parola magica, «sogni», un balsamo per un pubblico reduce dal Covid, dalla crisi economica e con la guerra tutti i giorni al tg
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La guerra, appunto. La prima mostra più visitata tra quelle con biglietto dedicato, cioè quella che ha portato la collezione di postimpressionisti e moderni dei fratelli russi Mikhail e Ivan Morozov alla Fondation Louis Vuitton di Parigi, è stata vista da 1.250.000 persone. Al di là del fatto che i due collezionisti riuscirono in tempi non sospetti ad acquisire alcuni tra i più incantevoli Van Gogh, Gauguin, Matisse, Cézanne, Picasso mai dipinti, c’è da chiedersi quanto abbia influito sull’eccezionale risultato l’effetto dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, proprietaria delle opere da quando vennero nazionalizzate sotto il regime sovietico. La certezza che si sarebbe trattata di un’occasione straordinaria, poiché la guerra avrebbe reso improbabili i viaggi verso i musei prestatori (il Puskin e la Tretjakov di Mosca e l’Ermitage di San Pietroburgo), le polemiche nate intorno all’opportunità o meno della restituzione delle opere dopo le sanzioni sul sequestro dei beni russi varate dall’Europa, possono avere giocato la loro parte.

La mostra, del resto, si è giovata di una proroga sull’apertura. Ma la qualità indiscutibile delle opere esposte, e il fatto che un viaggio in Russia non è alla portata di tutti anche in tempi di pace, restano gli elementi decisivi di un successo celebrato, tra l’altro, nella città-madre delle avanguardie europee, Parigi. Per il resto, nessuna sorpresa. Neppure che il 36enne Jago abbia soltanto 10mila visitatori in meno rispetto a Donatello (i cui capolavori, pure, erano accessibili insieme agli ambienti e alle collezioni di Palazzo Strozzi e del Bargello). Così come non stupisce la continuità con cui la moda (ormai partner anche in affari con l’arte) attragga migliaia di appassionati (161.945 al Victoria and Albert Museum) o che il tris automobile-arte-design sia sempre una giocata vincente (751mila biglietti al Guggenheim di Bilbao e quarto posto in classifica tra le mostre con biglietto a parte).

Marinetti l’aveva detto, non temendo di attribuire a «un automobile» (sic) una bellezza maggiore della Nike di Samotracia. Oggi quelle parole suonano come un vaticinio, alla faccia delle tante, belle e spesso inutili esortazioni alla sostenibilità (che cosa c’è di meno sostenibile di un’automobile? E con buona pace dell’ambientalista documenta, la mostra del Guggenheim la sopravanza in classifica) e di quelle (più inquietanti) su quanto siano costosi e inquinanti i musei, mostre e fiere e quante risorse richiedano, sottraendole a problemi più gravi, tipo la sostenibilità ambientale, appunto.

La classifica mondiale delle mostre più visitate su dati raccolti da «Il Giornale dell’Arte» e da «The Art Newspaper».

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