La Biennale della complessità

Tra Giardini e Arsenale l’arte fa i conti con il passato e si riappropria della materia, ispirandosi a forza, intelligenza, longevità e memoria

Andra Ursuta Jean Evler Simon Leigh Paula Rego Geumhyung Jeong Katharina Fritsch Cecilia Vicuna Delcy Morales Raphaela Vogel
Jenny Dogliani |

È un’arte che, tutto sommato, rassicura. Come la grande elefantessa che accoglie il visitatore nel Padiglione Centrale ai Giardini. Sola e imponente nella sala ottagonale, l’opera di Katharina Fritsch, scultura iperrealistica realizzata in poliestere dal calco di un esemplare impagliato, rappresenta: forza, intelligenza, longevità e memoria.

Quattro caratteristiche che l’arte deve avere, quelle che Cecilia Alemani cerca in più di un secolo di storia, in ogni angolo del globo. Non se ne abbiano a male i puristi della contemporaneità o gli habitué di quello sguardo occidentale che detta regole etiche ed estetiche.

Questa biennale, come la grande elefantessa matriarca africana al suo ingresso, reiterata e frammentata negli specchi alle pareti, riorganizza il nostro immaginario e scardina anche il predominio maschile, ma senza volerne fare una questione di genere.

Il post-umano, il post-apocalittico, il post-genderismo è qualcosa che ormai ci stiamo lasciando alle spalle, le opere in mostra sono l’adattamento di una nuova specie, un nuovo inizio, il tentativo della riconciliazione con un passato carico di sbagli e di errori.

Le sculture di Andra Ursuta sono esseri ibridi, antropomorfi e fantascientifici; semitrasparenti creature dal laboratorio realizzate mescolando tecniche di stampa in 3D con la tradizione della cera persa: una collisione tra forme organiche inorganiche all’origine di una nuova specie.

La presenza della materia è una caratteristica dominante di questa biennale. Lo è nei grandi quadri maglia di Rosmarie Trockel, nella installazione a soffitto di Cecilia Vicuna, che appende a fili frammenti di cavi, fili elettrici, radici per indicare la fragilità di un pianeta ridotto a pezzi e di un’arte fatta con materiali degradabili destinata a deperire.

La mostra è composta quasi solamente di dipinti disegni e sculture. Il rapporto con il digitale è secondario rispetto alla riappropriazione della gestualità e della materia pittorica o scultorea. Resta sullo sfondo, come le immagini in bianco e nero di una cerimonia nuziale stampate su carta da parati, sulle pareti dove campeggiano i dipinti di Kudzanai-Violet Hwami, pittore figurativo originario dello Zimbabwe residente a Londra, nei cui lavori la figura umana vai incontro a un disfacimento dall’interno che ricorda le opere di Francis Bacon.

Come il libro a cui è ispirata, Il latte dei sogni di Leonora Carrington, l’arte nella biennale post-pandemica ritrova l’uso della parola e la capacità di raccontare storie. Si veda il tormento di Josefa Taylor, che in un quaderno scritto e disegnato a penna dà sfogo all’indicibile dolore per la perdita di un figlio e al tentativo di mettersi in contatto con il suo spirito.

Ma la parola è anche un elemento decorativo privo di suono e significato, per esempio nelle opere di Tomaso Binga: pure forme geometriche svincolate da qualsiasi messaggio.

Anche il corpo va incontro a un simile destino nelle opere di Chiara Enzo, piccoli dipinti iperrealisti dove particolari come piedi, labbra e spalle diventano dettagli simili alle foto della scena di un crimine: il corpo è un involucro, una superficie fredda, priva di umanità e di intimità.

Corpi alterati dall’uso di sostanze allucinogene, attraversati da percezioni fisiche senza emozioni e sentimenti emergono nel video di Nan Golding: un montaggio di scene di ballo tratte da 30 film, omaggio a Donyale Luna, musa di Andy Warhol morta di overdose.

Una nuova umanità prende dunque forma. Solamente nuova, né migliore, né peggiore. Nelle opere di Ovartaci, nome d’arte di Louis Marcussen, pittore naturalista che voleva cambiare sesso, trasferito dalla sua famiglia in un ospedale psichiatrico, figure filiformi, mezze umane, mezze aliene, sembrano il prototipo di un nuovo ominide e di una nuova sessualità non definita. Lo stile naif della rappresentazione conferisce al suo lavoro un carattere gentile e rassicurante, in sintonia con la natura.

Cecilia Alemani dà voce alle nostre ossessioni, ci mette a tu per tu con i fantasmi del nostro vissuto, con i nostri incubi e con le nostre paure che ritroviamo nelle sculture dai tratti stregoneschi e satanici di Leonor Fini e nei ravvicinati mostruosi dettagli di creature apparentemente innocue, come gli squali e le mosche di Jean Evler.

Talvolta, invece, dietro a un tocco pittorico coinvolgente e rassicurante, come quello delle meravigliose immagini apparentemente fiabesche di Paula Rego, si nascondono scene domestiche di violenza e tradimenti.

L’arte intercetta l’energia fluttuante, creatrice o distruttrice che essa sia. È il miracolo che dà vita alla materia inerte, come nei dipinti geometrici di Sara Enrico, fatti di puntini neri su stratificazioni di colore, capaci di raccontare e di condensare la parabola dell’arte astratta.

Anche all’Arsenale ad accoglierci è una grande creatura totemica, un monumentale busto in bronzo dell’artista Simon Leigh. Raffigura una donna di colore incapace di guardarci, perché non ha gli occhi. Siamo noi a guardare lei, a farci guidare nel suo ventre che metaforicamente ci accoglie come le grandi sculture in argilla di Gabriel Chaile. Mastodontici contenitori antropomorfi ispirati alle usanze e alle credenze delle civiltà pre colombiane, spesso usati per allontanare gli spiriti maligni.

Gli artisti africani presenti in mostra riscrivono la loro storia dell’era coloniale, portandoci in un mondo post-colonialista, dove nei dipinti, quasi sempre figurativi, i ricordi dell’infanzia si mescolano ai sogni e alle paure nella ricerca di una nuova umanità. Fichre Ghebreyesus, Potria Zvavahera, Celestin Faustin, Myrlande Constant: le loro opere ci guidano dalla riflessione al trionfo della morte a un nuovo paradiso terrestre.

La terra è la chiave di tutto. Al di là di qualche esercizio un po’ etnico o accademico, essa ci accoglie al suo interno, come l’enorme e labirintica installazione di Delcy Morales, lunga e spessa zolla di terriccio compresso alto più di 1,5 m che ci avvolge con la sua presenza fisica e con il suo odore speziato di chiodi di garofano e cacao, fondendoci con essa attraverso una sensazione di armonia per nulla claustrofobica.

Il ritorno alla natura prosegue anche nel video di Egle Buduytyte, che raffigura una comunità di giovani adattatisi a vivere in un bosco in Lituania, secondo un nuovo modello di interdipendenza e i integrazione di organismi.

Nel futuro post-nucleare la vita, e con essa l’arte, si reinventa, nascono nuovi e giganteschi fiori fluorescenti illuminati da luci ultraviolette, opera dell’artista giapponese Tetsumi Kudo, caroselli di giraffe trasfigurate, relitti di una specie in trasformazione, stampate con tecnologia 3d e accompagnati da una colonna sonora di musica dark metal, realizzati da Raphaela Vogel. Lunghi tavoli di assemblaggio di uomini cyborg, immaginati da Geumhyung Jeong.

L’uomo come noi lo conosciamo è un ricordo, caduto in un abisso, in un buco nero dove il tempo si dilata, dove una singola emozione diventa incontenibile, come nel video di Diego Marcon, che racconta la calma e la premeditazione della furia omicida e suicida con un uomo seduto immobile sul bordo di un letto, mentre una gelida neve cade lenta alla finestra.

L’essere umano può forse sterminare la sua specie, ma nulla di più. Nell’opera che chiude la mostra, Precious Okoyomon realizza un microambiente fatto di terra, piante, fiori, pietre e acqua. Tutto scorre in una nuova dimensione ecologica di cui l’uomo farà parte, se sarà capace ad adattarsi, a sopravvivere a se stesso.

E così, giunti alla fine della visita, alla fatidica domanda, una delle più gettonate tra gli addetti ai lavori quando si vede una mostra: Ce n’era veramente bisogno? Sì ce n’era bisogno.

C’era bisogno di iniziare finalmente a immaginarsi un nuovo mondo, dopo aver tanto insistito sulla fine di questo. C’era bisogno di pensare a una nuova umanità, fatta di protesi, ma anche di natura, senza che una cosa debba per forza escludere l’altra. C’era bisogno di fare i conti con il passato, senza rinnegare le sue ombre o fingere di non farne parte.

C’era bisogno di fare un po’ di ordine, perché il moderno, lo storicizzato, il contemporaneo, gli under e gli emergenti sono solo categorie di mercato. L’arte, quella con la A maiuscola, quella che uno spera sempre, qua e là, di vedere alla Biennale, non si piega alle leggi del tempo e per dirla tutta, un secolo è quasi la durata media della vita di un essere umano.

E infine più di tutto, in un mondo troppo facilmente sedotto dalla dicotomia mi piace/non mi piace, pro/contro, buono/malvagio, più di tutto c’era veramente bisogno di ritrovare la complessità, di vedere e di cercare il mostro che è nell’uomo e l’uomo che è nel mostro.

BIENNALE DI VENEZIA

© Riproduzione riservata Precious Okoyomon
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