La Basilica di San Marco o il porto di Marghera?
Il Mose funziona, ma per favorire gli interessi del porto sarà usato meno del necessario

Sabato 3 ottobre le barriere mobili conosciute come Mose hanno protetto Venezia per la prima volta dall’acqua alta. «Il Gazzettino» ha scritto che alcuni veneziani in Piazza San Marco hanno pianto di felicità, pensando che finalmente una protezione dagli allagamenti c’è. Ma si sbagliavano. È emerso un fatto di cui pochi erano consapevoli: esiste un nuovo (ma vecchio) nemico della città, il porto industriale, che il Consorzio Venezia Nuova, gli ideatori e costruttori delle barriere, hanno sempre tenuto in considerazione e che ha condizionato la loro scelta di sacrificare all’economia portuale la parte simbolicamente più preziosa di Venezia, la Basilica di San Marco e la zona circostante.
In laguna un rapporto sicuro e sereno con l’acqua dipende da pochi centimetri. Barbara del Vicario possiede un appartamento al piano terreno di un palazzo sul Canal Grande. Sa che si allagherà quando l’acqua raggiunge i 105 centimetri sopra il livello medio del mare (soglia stabilita alla Punta della Salute nel 1897), come ha fatto 10 volte nel 2019. Nella Basilica (l’unico luogo dove è possibile oggi vivere il pieno splendore di Bisanzio, tutto oro e porfido, con santi e storie bibliche nei mosaici e intarsi in pietre preziose sotto i piedi) l’ingresso si riempie d’acqua a 86 centimetri, appena 6 centimetri al di sopra di un’alta marea «normale». Ma la politica decisa per il Mose è di alzarlo solo quando l’acqua raggiunge quota 110 centimetri.
Il 3 ottobre i meteorologi avevano previsto quota 130 centimetri, provocata da una combinazione di forti venti, bassa pressione e alta marea. Il Mose, in costruzione dal 2003, famigerato per le polemiche e le lotte politiche che ha generato, gli scandali di corruzione (che hanno portato a un vertiginoso aumento dei costi, giunti ora a 5 miliardi di euro) e gli innumerevoli ritardi, ha funzionato, malgrado i molti dubbi. «Ho detto che avrebbe funzionato, e così è stato», ha dichiarato Alberto Scotti, l’ingegnere che lo ha progettato e ha seguito la sua costruzione sin dall’inizio.
In questa prima occasione è stato sollevato quando l’acqua era a solo 70 centimetri ma, dice Scotti, da adesso e sino alla fine del 2021 verrà alzato solo quando l’acqua raggiungerà quota 130 centimetri (in parte per ragioni tecniche, in parte perché un accordo dev’essere negoziato col porto). A questo livello, il 69% della superficie della città sarà interessata dall’acqua alta: l’appartamento di Barbara del Vicario sarà gravemente allagato e l’ingresso di San Marco sarà sotto diversi centimetri di acqua.
Questa decisione apparentemente perversa è dovuta principalmente al grosso problema che si è manifestato il 3 ottobre. Sette navi sono rimaste fuori dalla laguna per nove ore mentre le barriere erano alzate. Da qui le immediate obiezioni dell’Autorità portuale. Scotti dice che negli ultimi 20 anni l’Autorità portuale ha firmato numerosi protocolli secondo cui la tutela della città avrebbe dovuto avere la priorità, ma ora sta cercando di far prevalere i suoi interessi economici. Che sono considerevoli. Qui non stiamo parlando tanto delle grandi navi da crociera su cui si è concentrata tutta la pubblicità negativa, ma delle pressioni economiche più forti che arrivano dagli insediamenti portuali di Venezia che si trovano a Marghera, all’interno della laguna su terraferma.
E il porto di Marghera ha una grande influenza politica perché, insieme al porto delle navi da crociera nel centro storico e a un porto più piccolo a Chioggia, è l’ottavo porto più grande d’Italia, collegato strategicamente sia su ferro sia su gomma. Dichiara di impiegare 21.175 persone e di coinvolgere 1.260 imprese. Rappresenta il 27% dell’intera economia del Comune di Venezia, che si estende in terraferma e ha tre volte più elettori della città storica. Non a caso Luigi Brugnaro, il sindaco dal «business first» residente in terraferma, è stato rieletto alle elezioni di settembre.
Qualcuno deve pur pagare se una nave da carico è in ritardo nello scarico delle sue merci: di solito, il noleggiatore o, nel caso di carichi alla rinfusa («bulk transport»), spesso il proprietario del carico; e il porto di Marghera è principalmente della seconda categoria (prodotti petrolchimici, generi alimentari, carbone ecc.). In ogni caso, un porto che causa ritardi rischia di perdere affari, da qui l’opposizione alle barriere da parte dell’Autorità portuale.
Il piano originario rimane quello di innalzare le barriere a 110 centimetri, mentre la protezione della parte più bassa della città, San Marco, richiederebbe un innalzamento a quota 85 centimetri. Nel 2018, quest’area è stata interessata 121 volte da acque alte fino a 110 centimetri (e 9 volte sopra 120, con due sopra 140). È inevitabile, quindi, che i procuratori della Basilica di San Marco, antica 900 anni e oggi Patrimonio Mondiale dell’Unesco, stiano valutando misure speciali per la sua protezione.
La giustificazione ufficiale per questa soglia dei 110 centimetri evita di menzionare il porto enfatizzando invece la riduzione dell’effetto sull’ambiente della laguna di un numero ridotto di chiusure, ma fa finta di ignorare che le barriere dovranno in ogni caso essere chiuse sempre più frequentemente a causa dell’aumento del livello del mare. Il Rapporto 2019 dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’ente più autorevole in materia, prevede che se limitiamo il riscaldamento globale a un aumento di due gradi centigradi (cosa ritenuta improbabile dalla maggior parte degli esperti), l’innalzamento del livello del mare sarà di 30-60 centimetri entro 2100. Diversamente, prevede un innalzamento tra 60 e 100 centimetri: a quel punto la sopravvivenza stessa di Venezia sarà messa in forte dubbio. A meno che non vengano escogitate nuove misure di protezione ancora sconosciute.
Scotti ne è consapevole e, sebbene affermi che le barriere saranno efficaci fino a 60 centimetri, ammette che il modo in cui verranno utilizzate solleva importanti questioni politiche. Un nuovo ente è stato annunciato dal Governo in agosto, l’Agenzia per Venezia, il cui compito sarà quello di gestire le barriere e il loro mantenimento, che dovrebbe costare almeno 50 milioni di euro all’anno. Scotti spera che il suo capo diventi Elisabetta Spitz, il «super commissario» che è stata chiamata a gestire il completamento delle barriere.
Lei, però, al momento si dichiara non interessata a progetti «a lungo termine». Scotti dice che dopo tutti gli scandali e le polemiche, per quanto riguarda il Governo nazionale, «Venezia è il diavolo», un costoso mal di testa per un sistema politico reattivo nei momenti di crisi, ma incapace di pianificare a lungo termine. Ritiene che sia ora che finisca ogni protezionismo campanilista e che le autorità debbano riconoscere che i giorni del porto industriale all’interno della laguna sono contati. La soluzione più sensata, secondo l’ingegnere, sarebbe di spostarlo a nord-est, a Monfalcone. A quel punto si potrebbe ipotizzare una laguna riservata a piccoli battelli, traghetti e yacht privati, meno condizionati dalle chiusure delle barriere.
Tom Spencer, professore di Dinamica costiera presso l’Università di Cambridge e organizzatore nel 2002 dell’ultimo studio completo sulla laguna di Venezia, afferma che per prepararsi all’innalzamento del livello del mare, Venezia e il Governo italiano dovrebbero esaminare l’approccio della Environment Agency, che gestisce il sistema di barriere sul Tamigi a protezione di Londra, ma sta elaborando progetti in un arco temporale che arriva fino al 2100. E non per caso collabora già con le altre principali città con sistemi di protezione dal mare: San Pietroburgo e Rotterdam.
Andreina Zitelli, biologa dell’Università Ca’ Foscari di Venezia ed ex consigliere del Governo per l’ambiente lagunare, ricorda la proposta del compianto Bruno Visentini, eminente cittadino di Venezia (e per due volte ministro delle Finanze) che negli anni Settanta disse che la città aveva bisogno di uno statuto amministrativo speciale per tenere conto delle numerose e complesse sfide interconnesse che deve affrontare. Sneska Quaedvlieg-Michailović, segretaria generale di Europa Nostra, ritiene che Venezia abbia bisogno del coinvolgimento dell’Unione europea, forse partecipando nel suo «Green Deal»: il progetto da mille miliardi di euro nei prossimi 10 anni per rendere più verde l’economia dell’Europa. Una cosa è certa, però. Questo primo utilizzo del Mose, seppur riuscito, è solo l’inizio. La parte difficile deve ancora venire.
