L’unicorno contemporaneo di Bradford
Un incontro con il noto artista a Montecarlo, presente all’apertura della sua personale da Hauser & Wirth, diventa occasione per conoscerne il pensiero e gli esordi

Incontrare Mark Bradford è come assistere a una sessione di free jazz: libertà, improvvisazione, tutto senza schemi formali precostituiti, mentre l’artista si espone generosamente. I suoi lavori occupano la grande sala ipogea della galleria Hauser & Wirth di Monaco, poi debordano sulle scale, raccontano storie fantastiche sovrapponendo contemporaneità e Medio Evo, fumetti e arazzi cinquecenteschi, pittura e carta. Tutto per parlarci di rapporti di potere, di comunità emarginate e di razze vulnerabili, di strutture economiche e sociali spesso ingiuste che definiscono la contemporaneità. Bradford «Grande Pifferaio Magico» fa precipitare il visitatore in una caccia all’Unicorno, ma il mitico animale, che ha avuto nei secoli molti significati, anche religiosi, bisogna cercarlo: è astratto come i suoi dipinti.
«Nobody Knows the Trouble I’ve Seen», sino all’11 maggio 2024, è una saga contemporanea che si rifà al ciclo di arazzi «La caccia all’Unicorno», tessuto probabilmente nei Paesi Bassi all’inizio del XVI secolo ed esposto dal 1937 al Metropolitan Museum di New York. Alcune delle immagini sono celeberrime, ma per ritrovarne le tracce è necessario osservare i dipinti di Bradford con attenzione. Il ciclo di lavori era già stato esposto nel 2021 alla Fundação de Serralves in Portogallo, ma acquista nuovo spessore e nuova energia nell’ambiente attuale, immersivo, progettato con grande attenzione: i quadri sono installati su uno sfondo scuro dipinto a sua volta, occupazione che ha impegnato l’artista in loco per alcune settimane.
Dal soffitto pendono mappamondi di svariate dimensioni, ulteriore lettura dell’installazione del 2019 «He would see this country burn if he could be king of the ashes», che ridisegna e contrae i vari paesi sui mappamondi secondo i diversi gradi di potere raggiunti. «Viviamo nello stesso mondo, ma il potere non è ugualmente distribuito, le persone non vivono il mondo tutti alla stessa maniera. Ho immaginato questi mondi neri perché chi ha il potere li sta facendo diventare così». Avvicinandosi ai dipinti si possono leggere i vari strati tra pittura e collage.
L’artista infatti utilizza ritagli di fumetti scelti con cura, li sovrappone con il colore e quindi li lavora, trasformando le superfici, bruciandoli con candeggina, scarnificando la pittura con pompe ad acqua ad alta pressione, e facendo emergere qui e là parole ed immagini. La sua pratica è collage e décollage insieme: aggiunge, toglie, scava, elimina e costruisce. Tutto per raccontare come i sistemi di controllo e comunicazione solo apparentemente siano cambiati nel tempo, in fondo gli arazzi sono i fumetti del passato.
Usa le parole dei fumetti e non ha dubbi: «i fumetti sono la contemporaneità, parlano di guerre, battaglie, generi, Superman e Spiderman, ma è la stessa cosa quando ci guardiamo indietro. I fumetti hanno un significato: wow, love me, gong, non sono solo parole. Io le strappo, ci lavoro sopra perché ho bisogno di uno spazio, una struttura in cui lavorare, le parole di per sè sono troppo figurative, già parlo troppo, alla fine io voglio fare un quadro, perché non sono un politico ma un artista».
Alcuni dei riferimenti di Bradford, nato a Los Angeles nel 1961 e che ha rappresentato gli Stati Uniti alla Biennale del 2017, sono per noi italiani di lettura immediata: l’opera site-specific installata sulle scale «The Map of Hell», del 2023, è ispirata a un’illustrazione di Botticelli raffigurante la discesa di Virgilio nelle viscere dell’inferno della Divina Commedia. L’artista, che non viene mai meno al suo senso etico, combina sempre un progetto filantropico insieme con le mostre, e qui ha lavorato con i ragazzi dell’Accademia, ascoltandoli e fornendo loro indicazioni sulla professione, ispirandoli e guidandoli e li ha ringraziati per l’energia ricevuta. Generoso nell’incontro personale, racconta del suo passato come bambino timido di una famiglia senza molti mezzi né grandi aspettative per lui. Figlio di una parrucchiera, Bradford è in fondo il sogno americano che si realizza, pur criticandone molti aspetti.
«Vengo dal sud di Los Angeles, ero un povero ragazzino gay, la mia via per l’arte è stata molto lunga, in realtà non ho iniziato prima dei 40 anni. In Europa la conversazione vira velocemente sui nazionalismi, in America sulla razza. Sono sempre un ragazzo nero, in America, e questo non te lo fanno mai dimenticare. Io, come Mark, vengo solo alla fine. Quindi, navigo sempre attraverso grandi, immense idee, più grandi di me, come la sessualità, il genere. Rigettiamo le domande del tipo: cosa si prova ad essere nero? Domandatemi cosa si prova ad essere me! Fate diventare le grandi idee vostre. Se siete donne artiste, siate artiste». La celebrità e il successo non lo hanno cambiato, anche se i suoi dipinti valgono qualche milione di euro; lui dice di aver sempre presente l’istituzione, il museo in cui deve lavorare come fosse la prima volta, «è come raccontare una storia: puoi sempre usare vecchie storie per raccontarne di nuove».