L'opera che Michelangelo tentò di distruggere

Avviati i lavori di restauro per la Pietà Bandini, al Museo dell'Opera del Duomo di Firenze

La Pietà Bandini di Michelangelo
Laura Lombardi |  | Firenze

Al via il restauro della Pietà Bandini, il gruppo scultoreo al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze che Michelangelo Buonarroti cominciò a scolpire ultrasettantenne alla fine degli anni Quaranta del Cinquecento e che le fonti indicano destinato all’altare della cappella di una chiesa romana dove l’artista pensava di essere sepolto.

Il carattere molto intimo della concezione è suggerito dall’autoritratto di Michelangelo nel vegliardo che sostiene il corpo del Salvatore (identificato da Vasari come Nicodemo) e dal fatto che l’artista, insoddisfatto, tentò di distruggere la sua opera.

Sarà un suo servo a rimettere insieme i frammenti, facendola riaccomodare da un collaboratore del maestro, Tiberio Calcagni, per poi venderla a Francesco Bandini, nobile romano. A Calcagni si deve la lucidatura del corpo di Cristo e il completamento della figura di Maria Maddalena (a sinistra), mentre la testa di Cristo e le figure di Maria (a destra) e del vegliardo (al centro) restano incompiute, come Michelangelo lasciò il gruppo nel 1555, forse anche esasperato, nella sua ansia di perfezione, dai difetti del blocco marmoreo: «Quel sasso aveva molti smerigli, ed era duro, e faceva spesso fuoco nello scalpello», scrive Vasari.

Arrivata a Firenze nel 1674, acquistata da Cosimo III de’ Medici, la Pietà Bandini sarà trasferita in Duomo nel 1722, poi al Museo dell’Opera dal 1981. Il restauro, affidato a Paola Rosa, esperta di opere michelangiolesche tra cui il «David», muove dalle indagini eseguite dall’Opificio delle Pietre Dure e dall’Enea nella campagna di studio svolta alla fine degli anni ’90 (pubblicate nel 2006 in un volume a cura di Jack Wasserman). Studi da cui risulta l’utilizzo di vari tipi di stucco e tre sistemi di collegamento dei perni tra le parti integrate e ricomposte.

Reso possibile dall’Associazione «Friends of Florence» attraverso molti donatori (tra cui i «major gifts» sono di Jeff & Nancy Moreland, Susan Boswell, Mary Sauer e Robert Doris), l’intervento è delicato e complesso, ma l’approccio, spiega la Rosa, «sarà minimo, volto a non stravolgere la visione ormai consolidata nell’immaginario collettivo di una superficie “ambrata”. L’immagine che si deve mantenere è quella di un gruppo scultoreo non in "bianco e nero”, ma sottilmente modulato e "colorato” dal variare della "pelle” della materia e dalle tracce di lavorazione, probabilmente già patinate in origine per raggiungere effetti armoniosamente differenziati».

© Riproduzione riservata
Altri articoli di Laura Lombardi