L’occultamento onirico del mondo perturbante

In occasione della sua prima personale italiana Jeanne Gaigher racconta il suo processo creativo

Lo studio di Jeanne Gaigher a Città del Capo, 2021. Cortesia dell'artista e Osart Gallery
Francesca Interlenghi |

Proseguendo l’indagine sulle personalità più interessanti del panorama artistico sudafricano, Osart Gallery presenta dal 10 settembre al 6 novembre la prima personale in Italia di Jeanne Gaigher (Cape Town, 1990), «Sing into my mouth». Con il suo linguaggio non convenzionale, capace di materializzare e rendere visibile lo stesso suo occultamento emotivo e onirico, l’artista declina un mondo a tratti perturbante, che viene alla luce grazie alla sua abilità a manipolare gli stereotipi della pittura.

Facendo leva sulle stratificazioni di tessuti, sull’intensità dei colori, sulla scomposizione e ricomposizione dei materiali, Gaigher dà nuova vita agli elementi che permeano la sua produzione e li fa coesistere alla stregua di organismi viventi. La tensione erotica, vitale e disorientante, tra i corpi e i contesti che li ospitano, il fluire di figure immaginarie, sintesi irreali che sottendono un altrove, generano quello spaesamento percettivo che coincide con l’ammirazione delle sue opere. Sulla superficie della tela, e debordando da essa, irrompono segni discontinui, frammenti disarticolati che restituiscono la parola alla parte spirituale e irrazionale delle cose tutte, siano esse animate o inanimate. Dilatando, fin dove si perde la vista, il paesaggio delle immagini.

Per prima cosa, e per introdurre il tuo lavoro al pubblico italiano, vorrei chiederti come sei approdata alla pittura e che tipo di evoluzione ha subito la tua pratica artistica nel corso degli anni.
Dipingo a tempo pieno ormai dal 2015. Il medium è rimasto lo stesso ma non è così per il linguaggio che ho costruito intorno alla tela grezza: cuciture, incursioni di tessuti, garze, sparizioni, dissolvenze, colori che penetrano nei materiali, sfumature terrose, atmosfere estatiche o esaltate. E ancora, corpi e luoghi. Tutti elementi che erano già presenti nel mio lavoro fin dagli esordi. Ma all’inizio la pittura era il modo in cui traslavo su tela gli spazi e le persone con le quali venivo a contatto. Con il tempo, lentamente, adottando uno sguardo più intimo e votato all’introspezione psicologica, ho sentito il desiderio di rappresentare gli stati d’animo e le loro sfumature. L’obiettivo è sempre stato quello di esplorare le potenzialità dell’immagine ma anche di indagare i materiali con i quali l’immagine stessa viene costruita. Ho sempre voluto che il risultato fosse al contempo snervante e sensuale.

Si usa spesso il termine fluidità in relazione al tuo lavoro. I tuoi vivaci interventi, caratterizzati da un acceso cromatismo e dall’assemblaggio di materiali diversi, permettono all’opera di uscire dalla consuetudine strettamente pittorica per sconfinare in quella scultorea. Potresti approfondire questo concetto di fluidità?
Un amico ha detto delle mie opere che somigliano sempre meno a dipinti e sempre più a situazioni. Situazioni cucite fisicamente insieme e che generano un corpo alla Frankenstein fatto di bende, sporgenze, costole, polmoni e spine dorsali che si vedono. Metà corpo e metà palcoscenico, a produrre un tutt’uno. Come dicevo, mi interessa creare un'immagine ma mi interessa in egual modo la superficie che la ospita perché ritengo giochi un ruolo centrale nella lettura complessiva del lavoro. Auspico che, grazie alla stratificazione di tessuti e alla stratificazione di informazioni che ne consegue, l’opera venga percepita come fosse in continua espansione e contrazione. L’occhio umano ha bisogno di tempo per districarsi in questo labirinto di materiali e così l’esperienza della lettura dell’opera risulta quasi claustrofobica.

Certamente alla stratificazione di materiali corrisponde la stratificazione di significati e questo rende il tuo lavoro polisemico e aperto all'interpretazione. Ma, volendo approfondire, ho ragione nel dire che questa molteplicità favorisce in qualche modo la tua indagine sul tema dell’identità e delle sue mutazioni?
Nulla è definito. Tutte le figure e i contesti che le ospitano vivono un processo di continua trasformazione: immagino l'intera scena e le superfici dei personaggi come fossero in stato di decomposizione. La questione della superficie è molto importante per me. I miei corpi sembrano fatti di una materia diversa, che non è pelle. Alcuni sembrano avere addirittura le qualità della pietra, altri ricordano dei fossili. Quando dipingo o disegno, la mia mano si muove come guidata da una coreografia che dirige in scena i diversi elementi e li fa crescere all’estremità della tela, esattamente come una muffa. Non ci sono collegamenti fra le linee, i disegni cadono a pezzi o si staccano dalle cuciture. Tutto è in divenire, un percorso di costante reinvenzione.

Tornando al tema della superficie, uno degli elementi centrali del tuo lavoro, usi in maniera impropria ma originale il termine anatomia in riferimento alla tela. Mi pare di capire che questo abbia a che fare con la forma e la struttura della tela stessa. Che tipo di rapporto instaura l’immagine con il supporto?
Al momento mi interessa particolarmente l'anatomia della tela in quanto tale, la costruzione del substrato su cui è dipinta l'immagine. Uso la parola anatomia in riferimento alla superficie perché la costruisco con strati di forme, di tessuti piegati e cuciti insieme, quasi a evocare i contorni degli organi e degli arti. Un’anatomia che cambia in funzione del cambiare di questi corpi di tela, che crescono tanto da diventare corpi che ospitano altri corpi. E’ un modo di vivere l’opera come un’insieme di organismi che cercano di coesistere.

Vedo nei tuoi dipinti scene tratte dal mondo dei sogni, un flusso di figure immaginarie le cui trame sono strettamente interdipendenti. Il tuo è un racconto che sembra dipanarsi in una dimensione altra, in una terra di conscio e inconscio, di fisico e metafisico, di materiale e immateriale. Ti ritrovi in questa descrizione?
Il luogo in cui le figure risiedono o agiscono aderisce a un’idea piuttosto razionale di stanza. C’è un pavimento e un senso della prospettiva, una vista o l’accenno di una parete. Ma mi piace la sensazione che l’opera sembri aprirsi a una doppia significazione, a una doppia esperienza. Il pavimento può essere interpretato anche come una palude, i capelli di due donne che corrono possono dare l’impressione di uno sciame di locuste. Qualcosa di simile a quello che viene descritto in una scena del libro «La bastarda» di Violette Leduc: mentre la protagonista cammina per la città con l’amica, il suo corpo comincia a disintegrarsi, a sciogliersi e a gonfiarsi sulla superficie urbana.

In questo interscambio, nel travaso di sogno e realtà, anche il colore, di cui fai un uso molto incisivo, ha un suo ruolo specifico.
La mia palette cromatica riflette lo scambio tra figura e contesto, il loro rapporto di mutua reciprocità. I colori che scelgo spaziano dal verde veronese, all'ossido di ferro rosso, al nero, fino al colore del fumo di un incendio che copre il sole. Tutti possono essere associati all’organicità della materia, eppure per come sono distillati e accostati, in modo estremamente specifico, potrebbero anche aprire a nuove riflessioni sui temi del design e del costume.

Da una parte l’astrazione delle immagini, dall’altra la concretezza dei materiali. Puoi dirmi quanto è importante per te la differenza tra questi due aspetti? La distinzione in realtà è un invito ad affrontare un altro argomento che è strettamente connesso alla tua poetica: mi riferisco all’animismo.
L’idea di animismo è legata alla possibilità di interpretare elementi concreti come fossero astratti. Il titolo della mostra «Sing into my mouth» ruota attorno all'idea di un’intimità disorientante. Un rapporto frastornante tra i corpi e i loro contesti, radicato nella convinzione che luoghi e oggetti siano animati. I pavimenti, le pareti, fin anche la superficie della nostra pelle, vivono di vita propria. La connessione con il mondo che ci circonda non si costruisce solo attraverso il linguaggio. E’ una connessione con i micro elementi e con l'ambiente naturale che si deve sviluppare sulla base di una diversa relazione tra il nostro corpo e le entità che lo circondano. Per fare questo è necessario uscire dalla consuetudine stagnante dei significati che attribuiamo alle cose. Ecco perché io parlo di decomposizione, perché è un modo per dare nuova vita agli oggetti inanimati, un modo per ri-determinarli, regalando alla superficie un nuovo linguaggio che le permette di esprimersi in maniera inusuale. Rompendo i vincoli, spero di creare terreno fertile per pensieri nuovi. Tutte queste riflessioni si rivelano immensamente utili e di grande ispirazione quando dipingo. È grazie al concetto di animismo che ho potuto mappare le stanze, con un procedimento molto simile a quello che si adotta per creare il cartamodello di un abito. Volevo davvero che sembrasse che lo spazio che circonda la figura ne incoraggiasse lo sviluppo o, per meglio dire, che crescesse intorno a essa, dando vita a quella relazione a cui ho accennato poc’anzi e che sul piano affettivo produce un'intimità disorientante.

© Riproduzione riservata Jeanne Gaigher, «Torso», 2021. Cortesia dell'artista e Osart Gallery. Foto Justin Share. Jeanne Gaigher. Cortesia dell'artista e Osart Gallery. Foto Justin Share. Veduta dell'esposizione «Sing into my mouth», Osart Gallery, Milano 2021. Cortesia dell'artista e Osart Gallery. Foto Max Pescio.
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