L’iconoclastia è un’arte, il digitale è la sua musa

La criptoarte moltiplica i profitti attraverso l’eliminazione fisica di opere «reali», ma il proprietario di un’opera ha o non ha il diritto di eliminarla o alterarla volontariamente?

«Love Is In The Bin», di Banksy. © Sotheby’s
Gloria Gatti |

Il 14 ottobre da Sotheby’s, alla prima Frieze Week post Brexit, la «Girl with Balloon» che tre anni fa durante l’Evening Sale era stata fatta a striscioline da Banksy con un tagliacarte elettrico comandato a distanza e venduta a brandelli per 1.042.000 sterline, è stata di nuovo messa all’asta e, questa volta, con una stima sei volte superiore (4-6milioni).

L’anonimo street artist che aveva tentato di scardinare il sistema dell’arte perché «prodotto da una casta», profanando il suo santuario con una catartica performance distruttiva, ha fallito e ne è diventato vittima. C’è da aspettarsi un’aggiudicazione record per il suo ennesimo «trofeo per un milionario» che, come scriveva André Gide nel suo diario, si ritroverà «ad acquistare qualcosa che in fondo non gli interessa così tanto o che addirittura non comprerebbe affatto».

Quella di Banksy, in origine, non voleva, a suo dire, essere un’elaborazione dell’opera nell’accezione di cui all’art. 18 della Legge del Diritto d’autore, che attribuisce all’artista «il diritto esclusivo di introdurre qualsiasi modificazione» ossia una «distruzione creativa» di una nuova opera, ma il meccanismo si è inceppato e la bambina con il palloncino rosso sembra essere diventata per casualità «Love Is In The Bin» che, secondo Alex Branczik, capo del dipartimento di Arte moderna e contemporanea di Sotheby’s, sarebbe diventata «una vera icona di storia dell’arte recente».

La distruzione «creativa», invece, non è una novità. Già i tagli di Fontana, concepiti con un’idea diversa, possono essere considerati latu sensu distruttivi, al pari delle combustioni di Burri, e persino Morandi ha distrutto una sua natura morta del 1942 donata a Carlo Ludovico Ragghianti, con una forbice da sarto perché non era soddisfatto dei colli delle sue bottiglie. E Gustav Metzger, ben prima di Banksy, come critica al capitalismo e al sistema dell’arte, aveva addirittura dato vita a una corrente artistica, l’auto-destructive art, teorizzando che «the destruction in art did not mean the destruction of art», poiché nel suo pensiero, trascorsi vent’anni, un’opera doveva ritornare all’origine della sua creazione, ossia al nulla.

Il 2021, però, è stato un anno di disruption e ha visto esplodere il mercato della Criptoarte e quella che sembrava una soluzione geniale per conservare e soprattutto lasciare tranquillamente lievitare nell’etere il «valore» dell’Nft e staccarlo irreversibilmente dal fair market value dell’opera fisica è diventata un vizio. A dare inizio al «cripto-furore iconoclasta» è stato, a marzo di quest’anno, un membro del collettivo Injective Protocol che, con indosso una T-shirt con sopra la Balloon Girl, ha bruciato in una diretta YouTube «Morons (White)» (2006), una serigrafia di Banksy pagata 95mila dollari e convertita in un Nft.

Il token contenente l’immagine digitalizzata dell’opera è stato venduto in Ethereum per un controvalore di 382mila dollari. In aprile, poi, è stata tentata la vendita, sempre su OpenSea (uno dei maggiori marketplace di Nft) di «Free Comb with Pagoda», una tecnica mista su carta del 1986 di Jean-Michel Basquiat, rimasta invenduta in un’asta tradizionale e il cui smart contract prevedeva la facoltà per l’aggiudicatario di distruggere il disegno fisico e conservare solo il token. A seguito dell’opposizione dell’Estate di Jean-Michel Basquiat che ha ritenuto la distruzione del corpus una lesione dei diritti morali dell’artista, l’opera è stata ritirata dalla vendita.

Nel nostro ordinamento tra i diritti morali riconosciuti all’autore ai sensi dell’art. 2577 c.c. e dell’art 20 l.d.a., vi è quello di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione o altra modificazione, e a ogni atto a danno dell’opera stessa, che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione. In merito alla distruzione dell’opera da parte del proprietario, eccezion fatta per i Beni culturali, per i quali l’art. 30 del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio pone in capo del privato anche solo possessore o detentore un obbligo di garantirne la conservazione, una giurisprudenza molto remota della Suprema Corte (2273/1951) si era espressa nel senso di ritenere che l’autore non possa «negare all’acquirente il diritto di disfarsi dell’opera d’arte, quando lo ritenga opportuno o pretendere che debba rispondere della perdita di essa», quindi, l’artista non avrebbe il diritto di impedire la distruzione delle sue opere da parte dell’acquirente.

Nell’attesa che si chiariscano i dubbi sulla titolarità del diritto, il dilemma è stato risolto a monte da Damien Hirst che a luglio ha lanciato il progetto «The Currency» (la valuta). Il genio di Bristol ha infatti tokenizzato una serie di 10mila suoi spot painting su carta (20x30 cm) realizzati sino al 2016, il cui titolo era stato scelto a caso da un’intelligenza artificiale tra i brani musicali preferiti dall’artista. L’Nft contiene l’immagine fronte e retro dell’opera unica, il certificato di autenticità e un ologramma che riproduce l’immagine dell’artista.

Una sorta di storia di Instagram per ricchi, insomma. I token sono stati venduti su una piattaforma creata appositamente a luglio a 2mila dollari, mentre le opere fisiche sono conservate in un caveau. Gli acquirenti avranno però un anno di tempo per decidere di mantenere la proprietà dell’Nft o quella dell’opera d’arte fisica a condizione che non abbiano venduto o scambiato nel frattempo il loro Nft, in tal caso il corpus verrà distrutto per contratto e la scelta sarà vincolata.

Nello stesso tempo a Parigi i privilegiati acquirenti delle monumentali «Cherry Blossoms», ora in mostra alla Fondation Cartier, dipinte personalmente da Hirst in versione «pittore neofita», sono stati avvisati che quei colori a olio talmente densi, irregolari, imperfetti e freschi da far sembrare la tela coperta da uno strato di meringa, potrebbero «modificarsi» col passare del tempo e quindi di aver comprato un’opera potenzialmente autoelaborativa che per essere viva non ha bisogno di essere bruciata.

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