L’Egitto nella Basilica Palladiana di Vicenza

Un viaggio nel tempo e nella penombra di un lontanissimo passato, aiutati dal suggestivo allestimento progettato dallo studio Antonio Ravalli e dalla curatela di Christian Greco, Corinna Rossi, Cédric Gobeil e Paolo Marini

Una veduta della mostra «I creatori dell’Egitto eterno. Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone» (2022), Vicenza, Basilica Palladiana. Foto Luca Zanon
Camilla Bertoni |  | Vicenza

L’impatto è con le sculture monumentali di Tebe, l’attuale Luxor, con la dea leonina Sekhmet e la statua di Ramesse II tra il dio Amon e la dea Mut. Sotto l’altissimo soffitto a carena rovesciata della Basilica Palladiana di Vicenza, da cui sono stati calati i pannelli multimediali che ne sottolineano la verticalità, si inizia un viaggio nel tempo e nella penombra di un lontanissimo passato, aiutati dal suggestivo allestimento progettato dallo studio Antonio Ravalli.

Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, ha fatto ritorno nella sua provincia natale curando la mostra «I creatori dell’Egitto eterno. Scribi, artigiani e operai al servizio del faraone» affiancato da Corinna Rossi, egittologa e docente al Politecnico di Milano, Cédric Gobeil e Paolo Marini, curatori all’Egizio. «Una mostra che mette insieme le sapienze e che racconta un Egitto altro che spesso si ignora, sull’esistenza e le sue difficoltà, su come la vita era organizzata, sulle credenze che la permeavano., ha spiegato Greco. Una mostra che si svolge intorno a un tema etico centrale, perché per gli Egizi contavano alla fine i valori della verità e della giustizia, fondamentali per poter vivere bene anche dopo la morte».

La mostra cade, nonostante i posticipi pandemici, nell’anno in cui vengono celebrati due anniversari fondamentali per la storia dell’Egittologia: i duecento anni dalla decifrazione dei geroglifici da parte di Champollion, che ne segna la nascita, e il centenario della scoperta della tomba di Tutankhamon. Concepita come un viaggio tra Vicenza e il villaggio di Deir el-Medina la cui vita viene svelata, la mostra è l’ultima di un ciclo di tre che il Comune di Vicenza ha realizzato insieme al Centro Internazionale di Studi Andrea Palladio e il Teatro Comunale della città, con il sostegno di Intesa San Paolo e Fondazione Roi, e si allaccia alla precedente, «La fabbrica del Rinascimento», creando un ideale ponte tra le pregiate manifatture egiziane di quindici secoli prima di Cristo con quelle venete di quindici secoli dopo Cristo.

Il villaggio di Deir el-Medina era sorto sulla riva occidentale del Nilo, di fronte a Tebe, nel 1500 a.C. per raccogliere e proteggere la sapienza manifatturiera di scribi e artigiani. «Vi vivevano più di cento famiglie che si definivano “servitori nel luogo della verità”, ha spiegato ancora Greco, per volontà dei faraoni, perché i segreti costruttivi e delle sepolture che realizzavano restassero all’interno delle sue mura». «Un villaggio che ha restituito reperti unici, ha aggiunto Paolo Marini, oggetti della quotidianità e strumenti legati al lavoro artigianale, nella maggior parte dei casi in altri contesti andati persi per sempre».

Centottanta reperti, venti dei quali provenienti dal Louvre, tutti gli altri dall’Egizio di Torino, e tre installazioni digitali «che non sono orpelli, ha sottolineato Greco, ma che permettono di conoscere la biografia degli oggetti e di interpretarli». Oggetti magari intrasportabili, come il «Papiro della tomba del faraone Ramesse IV» raccontato dal video ideato da Corinna Rossi.

Divisa in due sezioni, tra la vita quotidiana, profondamente intrinsecata con quella spirituale, e la vita ultraterrena, la prima è a sua volta scandita in tre capitoli: apre su Tebe, entra nei misteri delle sepolture, metaversi ante litteram nella lettura di Greco, e racconta la vita quotidiana. Le divinità segnano ogni momento, dal cibo, al lavoro, al sonno, fino al passaggio nel regno dei morti, come Meretseger dalle forme di serpente, così presente nel villaggio da poter essere considerata la protettrice del lavoro degli artigiani.

Dopo meraviglie come quelle appartenenti al corredo di Nefertari, che torna in Italia dopo anni di tour internazionale e di cui è esposto il modello voluto da Ernesto Schiaparelli nel 1904, i manufatti in faience, i sarcofagi gialli, gli ostraka, cioè frammenti di terracotta o pietra che ci restituiscono come esercitazioni di disegno frammenti di quotidianità, rarissimi documenti scritti o strumenti musicali come la lira in legno del Louvre, la mostra si chiude con la ricostruzione digitale del sarcofago di Butehamon, «il faraone che mette in sicurezza le tombe regali in un momento di crisi, in cui venivano depredate, quando l’Egitto aveva speso più di quanto potesse permettersi e Deir el-Medina viene forse abbandonato» ha concluso Greco. La mostra, organizzata da Marsilio Arte che ne pubblica anche il catalogo, resterà visitabile fino al 7 maggio.

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