L'Avvento nell'arte italiana | 15 dic

La cappella Capocaccia dedicata a San Giuseppe

«Sogno di san Giuseppe», di Domenico Guidi (particolare)
Maria Grazia Bernardini |  | ROMA

Nella chiesa romana di Santa Maria della Vittoria, di fronte alla cappella Cornaro che ospita il celeberrimo gruppo di «Santa Teresa e l’angelo» di Giovan Lorenzo Bernini, si trova la cappella Capocaccia dedicata a San Giuseppe. Luca Capocaccia, nel rispetto delle volontà testamentarie del fratello Giuseppe, facoltoso mercante romano, tra gli anni 1695 e 1699 promosse la decorazione della cappella con storie di san Giuseppe, in onore del santo omonimo del fratello, chiamando i due più importanti scultori di quegli anni: Domenico Guidi, allievo di Alessandro Algardi e collaboratore di Bernini, che realizzò il gruppo sull’altare raffigurante il «Sogno di san Giuseppe», e Pierre-Étienne Monnot, artista francese, che eseguì i due grandi rilievi posti sulle pareti della cappella, la «Natività» e la «Fuga in Egitto». Le tre opere sono in stretta relazione tra di esse e presentano l’umile falegname nella veste di sposo e di padre attento, concreto, premuroso, «uomo dei sogni» e non un «sognatore» come suggerisce papa Francesco.

La narrazione inizia nella parete sinistra, dove si trova il pannello con la Natività. La scena si svolge all’interno di un edificio diruto di cui si scorgono le grandi arcate spezzate: la Vergine inginocchiata, con atteggiamento solerte e adorante, svela il Bambino Gesù posto al centro su un cesto di vimini e a destra si staglia la grande figura di san Giuseppe che vigila sulla famiglia, mentre sullo sfondo si accalcano i pastori, le pecore e in alto angioletti. Sull’altare è posto il Sogno di san Giuseppe: il santo è colto mentre è assopito e riceve in sogno l’annuncio dell’Angelo che lo invita a fuggire in Egitto.

Come narra il Vangelo di san Matteo (2, 13-15), «un angelo apparve a san Giuseppe e gli disse “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo”. Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta». San Giuseppe aveva avuto un altro sogno, durante il quale l’Angelo gli annunciava la nascita di Gesù: «Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai peccati» (Matteo, 1, 21).

Nella elaborazione del gruppo scultoreo, Domenico Guidi si è ispirato all’opera di Bernini, la Santa Teresa e l’angelo, posta nel transetto opposto, ma quanto è patetica, intensa e coinvolgente l’opera berniniana, tanto più è misurata e fortemente narrativa l’opera di Guidi. San Giuseppe è immerso in un sonno profondo e non sembra scosso dalla rivelazione divina. L’Angelo tocca lievemente la spalla di san Giuseppe con la mano destra mentre con l’indice sinistro indica la strada da seguire; stilisticamente più che l’influenza di Bernini Guidi tradisce in realtà l’alunnato presso Alessandro Algardi e ricorda, in questo suo linguaggio elaborato, decorativo, e nello stesso tempo aulico, il «San Michele Arcangelo» del suo maestro (Bologna, Musei Civici di Arte Antica).

Presso il Carnegie Museum of Art di Pittsburgh è conservato un bozzetto in terracotta che costituisce la prima idea per la figura di san Giuseppe. In questo primo studio Guidi appare più vicino al linguaggio figurativo berniniano e si rivela più intensamente espressivo. Nel passaggio alla redazione finale in marmo l’artista vira verso una forma più classicheggiante, forse per adeguarsi ai modi stilistici del Monnot e creare un insieme più omogeneo.

Il ciclo si chiude sulla parete destra con la «Fuga in Egitto»: qui la Vergine con il Bambino in braccio è posta al centro della composizione, seduta sull’asinello che allunga il muso a terra; a destra si erge san Giuseppe, in piedi che si volge verso la Vergine, a sinistra un angelo dalle grandi ali accarezza con la mano destra il Bambino. In primo piano il frammento di una colonna antica, in alto la sagoma di una capanna. Nei due rilievi Pierre-Étienne Monnot dà prova del suo grande talento e rivela nel linguaggio classicheggiante e raffinato la sua formazione francese.

Era arrivato a Roma infatti nel 1687 come «pensionnaire» dell’Accademia di Francia che era stata istituita solo pochi anni prima, nel 1666. Sarà un protagonista della arte romana di fine secolo, partecipando con gli altri scultori francesi, Pierre Legros e Jean-Baptiste Théodon, alla realizzazione del grande altare dedicato a sant’Ignazio nella chiesa del Gesù. I due rilievi mostrano una levità di segno pur in una disposizione calibrata, una delicatezza di affetti, un senso del decorativismo che preannunciano già una sensibilità settecentesca lontana ormai dall’arte esuberante del barocco.

© Riproduzione riservata La «Natività» di Pierre-Étienne Monnot nella cappella Capocaccia nella chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma (particolare)
Altri articoli di Maria Grazia Bernardini