L’arte può essere oscena?

Le libertà, i limiti giuridici e la censura: il caso del «San Simonino» di Gasparro

«San Simonino», di Giovanni Gasparro (particolare)
Gloria Gatti |

«Scusate, nonostante siano passati 100 anni il tema è sempre scandaloso». Questa l’ironica risposta del Leopold Museum quando, nel 2018, la metropolitana di Londra rifiutò di affiggere i manifesti che raffiguravano le opere «Uomo nudo seduto» (1910) e «Ragazza con calze arancioni» (1914) per promuovere la mostra «Egon Schiele, espressionismo e lirismo» a Vienna. Troppo provocanti, troppo osé per essere apprezzati.

Osceni, ora come allora, come quando l’artista austriaco fu imprigionato nel 1912 per oltraggio alla morale e il giudice bruciò pubblicamente uno dei suoi disegni. Forte di un’ottima strategia di marketing, invece, il Leopold Museum accettò, sì, di censurare i nudi con un banner, ma con la frase: «Veniteli a vedere per intero a Vienna».

«Disapprovo ciò che dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo», recita il celebre motto attribuito a Voltaire. Ma ancora nel 2020, in un mondo globalizzato che stride con l’idea di confine, la censura affonda i suoi fendenti sulla libertà di pensiero. Eppure l’Art.19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo recita che «Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione, e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e frontiera».

Sotto questa luce, il dipinto «San Simonino», realizzato dal pittore pugliese Giovanni Gasparro, sembrerebbe lecito. L’artista ha recentemente dipinto la tortura e la morte di un bambino (Simonino, appunto) che, si narrava, fossero avvenute per mano di una comunità ebraica. Il 26 marzo del 1475 a Trento venne trovato il cadavere di un bimbo, e sulla scia della diceria popolare che fosse stato ucciso dagli ebrei per impastare con il suo sangue il pane azzimo della Pasqua, la comunità ebraica tridentina fu sterminata (alla vicenda è stata dedicata una recente mostra al Museo Diocesano Tridentino di Trento, Ndr).

Una leggenda nera (oggi diremmo una fake news) diffusa fin dal Quattrocento per fomentare l’odio contro gli ebrei e di cui ha fatto giustizia soltanto il Concilio Vaticano II. Nonostante questo, a distanza di cinquantacinque anni dalla smentita ufficiale, Gasparro ne fa il soggetto del proprio dipinto. Aspre e legittime polemiche sono seguite. Ma ad emettere ed eseguire la sentenza non è stato un giudice. A nulla sono valsi la perfezione formale dell’opera, la complessità anatomica, l’uso sapiente della luce: Facebook ha subito oscurato l’immagine.

L’osceno deve restare fuori dalla scena, come da suo significato etimologico. Ma è davvero così? E, soprattutto, può un social mediumsostituirsi a un Tribunale? La vicenda trova un’assonanza con un caso del 2017, quando la Biennale di Venezia veniva citata in giudizio per il balletto «Messiah Game» (una rivisitazione sadomaso della Passione di Cristo) ritenuto offensivo verso i cittadini cattolici; proprio in quell’occasione, in riferimento alla laicità dello Stato, fu sancito il «dovere di garantire, rimanendo neutrale ed imparziale, l'esercizio delle diverse religioni, culti e credenze, e di assicurare la tolleranza anche nelle relazioni tra credenti e non credenti» (Cass. Civ. 23/03/2017, n. 7468).

Ma anche con un caso del 2015, in cui la Suprema Corte ha definito il reato di vilipendio della religione, secondo il suo significato etimologico, nel «”tenere a vile”, e quindi additare al pubblico disprezzo» (Cass. Pen., 7/4/2015, n. 41044), così confermando la condanna dell’artista blasfemo ad 800 euro di multa.

L’art. 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e (nel caso specifico italiano) l’art. 21 della Costituzione, confermano la tutela della libertà di pensiero attraverso «ogni mezzo di diffusione». Anche con il pennello, dunque, anche con un soggetto che non trova riscontro nella realtà dei fatti. Ecco perché è difficile spiegare il motivo delle censure di Facebook che, da oltre un decennio, si ostina a rimuovere le immagini di opere come «L’origine del mondo» di Courbet e la «Venere di Willendorf», considerate alla stregua di materiale pornografico.

Il limite è dettato dal comma 6 dell’art. 21, secondo il quale sono vietate tutte le manifestazioni di espressioni che siano contrarie al buon costume. In questo giudizio bisogna inoltre «aver riguardo alla sensibilità dell’uomo medio registrabile nel tempo presente», perché la nozione di osceno «fa riferimento al sentimento di una comunità storicamente determinata» (Cass. Pen. 13/10/2005, n. 2635).

E allora ci domandiamo: quali sono i parametri entro cui far rientrare i «boni mores» di un’opera? L’arte, per definizione, può avere delle limitazioni? L’art. 529 comma 2 del codice penale accoglie una «fictio iuris» e risponde che «Non si considera oscena l’opera d’arte o l’opera di scienza».

Ma nella pratica, purtroppo, non è così. E a nulla sono valse le rappresaglie di nomi celebri come Banksy, che nel 2018 ha realizzato «FREE ZEHRA», un murale che invocava la scarcerazione dell’artista e giornalista curda Zehra Dogan; a nulla è servito il tentativo di Ahmet Güneştekin che, dopo averla esposta nel corso degli eventi collaterali alla Biennale, ha riproposto la sua «Costantinopoli» nella città di Istanbul, per vederla coperta da sacchi neri e rimossa nell’arco di quarantott’ore.

I casi di censura citati da Carole Talon-Hugon, nella sua recentissima pubblicazione L’arte sotto controllo (Johan & Levi, 2020) sono a dir poco infiniti: un elenco inimmaginabile di sculture, installazioni e dipinti confinati fuori dalla scena, ritenuti scandalosi, offensivi, e quindi eliminati. E noi vorremmo, invece, che l’arte non fosse considerata un soggetto osceno, ma che, come il deus ex machina del teatro greco, potesse svelare il significato dell’opera e riavvolgerne le fila.

© Riproduzione riservata
Altri articoli di Gloria Gatti