L’arte nell’era dell’incarcerazione di massa

Artisti nelle prigioni e sulle prigioni: che cos’è l’arte per gli oltre 2 milioni di persone (38% afroamericani) recluse negli Stati Uniti, dove esiste la più numerosa popolazione carceraria al mondo

«Pyrrhic Defeat: A Visual Study of Mass Incarceration» (2014-presente), di Mark Loughney (particolare). © Mark Loughney
Maurita Cardone |  | New York

Che per alcuni l’arte possa essere evasione, redenzione, salvezza è una verità ai limiti dello stereotipo. E tuttavia è un fatto per chi l’arte la fa dentro le mura di un carcere. «Marking Time: Art in the Age of Mass Incarceration», in corso fino al 4 dicembre nello Schomburg Center for Research in Black Culture di Harlem, esplora la detenzione come contenuto, contesto, codice e condizione dell’arte. Negli Stati Uniti sono detenuti oltre due milioni di persone, sette ogni mille abitanti. La popolazione carceraria americana è la più numerosa al mondo. L’incarcerazione di massa è un fenomeno degli ultimi decenni. Negli anni ’70 nelle prigioni americane c’erano meno di 300mila persone. Nel mezzo, una guerra alle droghe e al crimine iniziata sotto la presidenza Nixon e, per alcune fasce della popolazione, mai realmente finita: di quei due milioni, il 38% è afroamericano.

«Marking Time» porta l’attenzione su questi temi, oltre a numeri e statistiche: «La mostra invita a riconoscere e apprezzare la forza e le capacità di questi artisti e a sentire l’urgenza di cambiare il sistema», ci ha detto Nicole Fleetwood, curatrice della mostra e autrice dell’omonimo libro che l’ha preceduta, frutto di 10 anni di ricerche e interviste con oltre 60 artisti. Nelle gallerie trova spazio la varietà di soluzioni creative con cui gli artisti hanno dato voce alla propria storia. «In carcere ci sono tante restrizioni e accedere ai materiali è la prima basilare difficoltà che questi artisti incontrano. In alcuni penitenziari esistono programmi d’arte gestiti da associazioni esterne, ma in altri casi gli artisti devono arrangiarsi con quello che trovano e usano federe dei cuscini, lenzuola, documenti legali, saponette. Le restrizioni diventano innovazione», ha aggiunto la curatrice.

Nel corso dei suoi oltre vent’anni in carcere per un crimine dal quale è stato poi scagionato, Dean Gillispie lavorava in cella di notte per creare miniature nostalgiche di un’America rurale con materiali di scarto raccolti nel cortile della prigione. Il suo «Spiz’s Diner» è una riproduzione, fatta con bastoncini dei ghiaccioli, lattine, custodie per musicassette, di uno dei classici diner che si incontrano su tutte le strade americane. A volte la scelta del materiale non è dettata dalle restrizioni del carcere. Dopo il suo rilascio, Russell Craig ha acquistato un grosso stock di borse in pelle prodotte da un amico ancora in prigione a cui voleva dare una mano. Poi ebbe l’idea di utilizzarle come superficie per i suoi dipinti. Le borse sono tagliate, sagomate, schiacciate e riassemblate. Le chiusure e le zip evocano ferite e cicatrici. L’opera qui esposta è un autoritratto in nero e arancio, i colori del sistema penitenziario, in cui l’artista si sdoppia in un’autoriflessione che è uno sguardo al passato che lo ha portato in carcere.

La riflessione sul senso del sé e sulla sua conservazione a dispetto dell’immagine che ne rimanda il sistema ricorre in altri lavori, come in quello di Halim Flowers, etichettato dalla stampa come «superpredator» quando, appena adolescente, era stato arrestato. Uscito di prigione dopo 22 anni ha fatto dell’identità che gli era stata appiccicata addosso uno strumento di rivendicazione del diritto alla propria narrazione. Non tutti gli artisti in mostra hanno subito l’incarcerazione in prima persona. Alcuni ne hanno fatto esperienza attraverso un membro della famiglia, come Sable Elyse Smith che, nelle visite al padre, incarcerato fin da quando lei aveva dieci anni, aveva sempre patito la violenta freddezza delle stanze dedicate agli incontri. Gli arredi di questi luoghi sono ora parte delle sue opere, come in «Backbend», una scultura realizzata con tavoli e sgabelli a formare un arco, forse un ingresso, forse una giostra per bambini.

«Marking Time» ha esordito nel 2020 al MoMA PS1 e da allora non ha mai smesso di viaggiare, spostandosi in tutto il Paese, trasformandosi e arricchendosi di nuovi artisti e di nuove opere di artisti già presenti. «La mostra è il volto pubblico del libro e in quanto tale è sembrato naturale portarla in diverse comunità che hanno subito l’impatto dell’incarcerazione di massa. Il problema è infatti nazionale ma anche iperlocale e colpisce comunità diverse in modi diversi. La mostra risponde a queste comunità, anche organizzando programmi creati in collaborazione con loro», ha concluso la curatrice. Essere allo Schomburg Center, storico centro di ricerca che fa parte del sistema delle biblioteche pubbliche, ha un particolare valore per Fleetwood, non solo perché Harlem è casa sua, ma anche perché è una delle comunità più incarcerate d’America. E qui lo Schomburg Center, con i quasi 100 anni di storia al centro della cultura afroamericana, non è solo un pezzo vitale della comunità, ma un simbolo e una risorsa.

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