L’arte confusa con l’uso comune

Dal caso della visitatrice che si è portata a casa la giacca esposta al Musée Picasso e le ha rifatto l’orlo ai precedenti di Calzolari, Beuys, Emin, Eron, Hirst, Orozco e ovviamente Duchamp. Ma la legge dice che...

La giacca di Picasso nell’opera «Old Master» di Oriol Vilanova
Gloria Gatti |

Ha fatto il giro del mondo la bizzarra notizia di una signora parigina che ha «rubato» dal Musée Picasso una giacca, opera d’arte, credendola una cosa abbandonata che si potesse prendere e portar via come le cartoline che stavano nelle sue tasche e come i vestiti esposti alla mostra «Take me (I’m Yours)», concepita nel 1995 da Hans Ulrich Obrist per la Serpentine Gallery.

A me ha fatto tornare in mente quella volta che un bambino, a una preview di Christie’s a Milano, proprio davanti ai miei occhi si era preso un pezzo del lotto 16. Del resto, era un trenino elettrico che trasportava una piuma che accarezzava la scritta «Un eroe somiglia a...» su un monocromo bianco di Pierpaolo Calzolari e sembrava messo lì apposta per lui. E quell’altra volta che, ad Art Basel, un gallerista stanco che visitatori fotografassero il suo distributore per l’acqua, invece che le opere esposte, ci aveva appiccicato sopra un cartello su cui aveva scritto «This is not a work of art». La verità, purtroppo, è che da quando Duchamp ha capovolto un orinatoio e l’ha firmato facendone arte, oltre al «ready made» sono iniziati i problemi, e non solo concettuali.

Un’«untitled» vaschetta per il bagnetto di Joseph Beuys al Castello Morsbroich in Germania è stata «ripulita» e trasformata in glacette per un evento politico; un’installazione del riminese Eron è stata scambiata per una crepa nel muro e stuccata da un dipendente del Mar di Ravenna; «My Bed», un letto sfatto di Tracey Emin, è stato rifatto alla Tate Britain di Londra; e, sempre a Londra, i posacenere, le lattine di birra e le tazze di caffè semivuote della mostra di Damien Hirst alla Eyestorm Gallery sono stati rimossi.
«Dove andiamo a ballare questa sera?» (2015) di Goldschmied & Chiari, installation view, Museion, Bolzano
Così come molte altre opere d’arte contemporanea, tutte finite nella spazzatura scambiate per rifiuti dagli addetti alle pulizie: la scatola di scarpe di Gabriel Orozco alla Biennale di Venezia del 1993; i resti della prima dimostrazione pubblica di arte autodistruttiva di Gustav Metzger e l’installazione ambientale «Dove andiamo a ballare questa sera?» delle artiste Goldschmied & Chiari al Museion di Bolzano dove nel 2015 gli addetti alle pulizie, scambiandola per i resti di una festa, l’avevano rimossa...

Ma torniamo a Parigi. La giacca, rimessa a modello da una sarta su richiesta della signora, era un’opera d’arte, dal titolo «Old Master», e nella mente dell’artista catalano Oriol Vilanova era un ritratto di Picasso, evocato dal pastrano che il maestro usava per dipingere. È lo stesso Vilanova a scriverlo su Instagram.

Ma tornando al ritratto di Picasso. Se la polizia non avesse ritrovato la giacca, quale sarebbe stato il risarcimento pagato dall’assicurazione? E ora, invece, che l’opera è stata recuperata, la rimessa a modello è da ritenersi un deprezzamento e, quindi, un danno risarcibile? Il «discrimen» in questi casi è dato dal fatto che l’artista è vivente e che l’oggetto di uso comune diventato arte è ancora in commercio.

L’oggetto, magari anche di poco prezzo, con il placet dell’artista (solo titolare dei diritti morali sull’opera) può essere sostituito e l’opera ricomposta come originale. Diverse, invece, sono le considerazioni, qualora l’artista sia defunto, come nel noto caso della «Porte, 11 rue Larrey, Paris» di Duchamp esposta alla Biennale di Venezia del 1978 alla quale gli imbianchini che preparavano l’allestimento del Padiglione avevano dato una bella mano di bianco. Duchamp era morto e il proprietario dell’opera aveva citato l’ente, che a sua volta aveva chiamato in manleva il colorificio e le assicurazioni.
«Scatola di scarpe vuota» (1993) di Gabriel Orozco
La causa è stata decisa con sentenza del 1987 dal Tribunale di Venezia che ha stabilito che l’imbrattamento della porta di Duchamp, la parziale abrasione della firma e della data e la perdita della patina originaria erano, a ragione, un nocumento irreparabile al pregio dell’opera e, quindi, un danno economico risarcibile e che la colpa fosse della Biennale per la leggerezza e la mancanza di diligenza nella direzione dei lavori e per non aver avvertito i dipendenti del colorificio del fatto che quella porta consumata fosse un’opera d’arte.

In senso contrario va segnalata la, discutibile, sentenza del Tribunale di Milano (3190/2017) relativa al danneggiamento dell’opera «Forme uniche della continuità nello spazio» di Umberto Boccioni causata da un dipendente del Museo di Ixelles, dov’era in prestito, che mentre spingeva un carrello contenente delle sedie per una conferenza, scivolò sul pavimento lucidato con la cera, urtando la statua con il carrello e provocandone la caduta.

In questo caso il Giudice di Milano ha ritenuto non sufficientemente provato l’ammontare del deprezzamento dell’opera, non essendo un bene che poteva avere un valore commerciale, in quanto bene pubblico e ha negato il risarcimento del danno. Con l’occasione vale però la pena ricordare a tutti i visitatori freddolosi che se, al posto del ritratto di Picasso, ci fosse stato l’autoritratto di Kounellis «Tragedia civile» (1975) il «furto» di quel cappotto avrebbe potuto avere conseguenze ben diverse.

© Riproduzione riservata
Altri articoli di Gloria Gatti