L’arte afghana diventerà un fiume

Amanullah Mojadidi, curatore del progetto alle Gallerie delle Prigioni, ripercorre le vicende recenti degli artisti del suo Paese d’origine

Un’opera della serie «Invisible Captivity» (2013) di Rada Akbar. © Tapio Wirkkala, by Siae 2021
Amanullah Mojadidi |

Si spinge sino in Afghanistan il progetto espositivo che le Gallerie delle Prigioni a Treviso ospitano dal 25 novembre sino al 23 dicembre e che vede protagonisti gli artisti Lida Abdul, Mario García Torres, Hangama Amiri, Rada Akbar, Kubra Khademi. A svilupparlo è Amanullah Mojadidi, ricercatore, artista e curatore di origini afghane, di base a Parigi, che abitualmente indaga tematiche come l’appartenenza, la politica dell’identità, il conflitto, la migrazione. Scopo di quest’ultima proposta e del suo relativo public program, è quello di fuggire la vittimizzazione e volgere piuttosto lo sguardo verso un possibile futuro culturale e creativo del Paese presentando il risultato della ricerca artistica degli ultimi anni. Ciò non prescinde dalla presa di coscienza dei recenti avvenimenti e dal passaggio da un fermento (da cui si sviluppò nel 2013 Imago Mundi Afghanistan) all’attuale «evaporazione artistica» di cui ci parla il curatore nel testo che proponiamo qui di seguito. Ma il futuro, afferma Mojadidi, è certo ancora tutto da scrivere perché «non siamo ancora giunti alla fine della storia». [Veronica Rodenigo]

«Qatra qatra darya mehsha»: «Goccia dopo goccia diventerà un fiume». Questo antico detto afghano parla dell’importanza di speranza, pazienza e determinazione. Tre elementi con cui l’Afghanistan ha un rapporto di lunga data, e per questo voglio condividere una storia, che contiene mille altre storie. Nel 2012 fui contattato per curare l’edizione afghana della Imago Mundi Collection.

In quel periodo arte e cultura avevano assunto una particolare connotazione filosofica e socio politica, e per questo avevano destato l’interesse dei Paesi stranieri, non solo perché potevano giustificare l’iniziale invasione, ma perché davano anche senso a un eventuale, ma alla fine inevitabile, ritiro delle truppe.

L’Afghanistan diventò un «Conflict Chic», in una sua romanticizzazione che creò un’immagine distorta. Divenne quindi difficile impegnarsi in qualche progetto culturale senza avere la sensazione di prendere parte a questa strumentalizzazione. Era un momento complesso, ma la Facoltà di Belle Arti all’Università di Kabul stava fiorendo, si formavano collettivi artistici e una generale atmosfera di creatività si stava propagando come un’onda.

E cavalcando proprio quest’onda, nel 2013 nacque Imago Mundi Collection Afghanistan. Otto anni dopo vediamo che, nonostante queste onde abbiano portato una grande quantità d’acqua, non sono state in grado di fornire quell’approvvigionamento costante necessario per far crescere un movimento. Perché se l’acqua viene rovesciata di colpo, non ha il tempo di penetrare e lentamente («qatra qatra») nutrire le radici artistiche, prima di evaporare.

Questo stato di «evaporazione artistica» è quello in cui ci troviamo oggi. Gli eventi negli ultimi mesi hanno scioccato tutti. Frotte di artisti hanno già lasciato il Paese, e nonostante non sia l’inizio di un esodo già consistente dei talenti, l’arrivo dei Talebani ha alimentato ulteriormente questo «creative drain».

Ma non siamo giunti alla fine della storia, che continua a scriversi e riscriversi: anche se cerchiamo di assicurare la salvezza degli artisti afghani, credo che proprio questo capitolo della storia possa anche permetterci di andare oltre a molti stereotipi.

Immaginate gli interventi artistici negli ultimi anni in Afghanistan come un mandala su sabbia, la cui forza non è tanto il prodotto finale, quanto piuttosto il processo meditativo che c’è stato nel produrlo, e la forza dei miti e dei simboli che rimangono nella memoria collettiva di un luogo, e delle sue persone. Perché «qatra qatra» diventerà un fiume.

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