L’America straziante di Trump
Uno straordinario reportage nelle fotografie di due viaggiatori italiani

I confini murati, le periferie, la povertà, l’ossessione per le armi, il suprematismo, le città fantasma: nelle fotografie di Renata Busettini e Max Ferrero, gli americani rassegnati e impauriti abitatori di un’immensa Spoon River vivente.
Nei reality show, in fondo, è il secondo termine a prevalere: i corpi deflagrati nell’obesità di «Vite al limite» o l’ossessione per le armi che ogni tanto fa capolino tra gli articoli offerti al «Vecchio», alla «Volpe», allo «Smilzo» e a «Chumlee» nel negozio dei pegni di Las Vegas, dov’è ambientato «Affari di famiglia», per noi italiani sono attori e ingredienti di un esotico Barnum americano.
Anche il dramma di chi non può permettersi un’assicurazione sanitaria, uno dei temi della serie «Breaking Bad», per noi, abituati a imprecare per un’attesa al pronto soccorso, resta confinato nei limiti di una fiction. Invece è tutto vero. Con un paradosso: la fotografia in bianco e nero riesce a dimostrarlo con molta più efficacia della televisione a colori.
Il reportage realizzato da Renata Busettini e Max Ferrero, viaggiatori non turisti, ha molti punti in comune con la «caposcuola» Dorothea Lange. L’America di Trump, l’America Fi(r)st (libro di prossima uscita nelle edizioni Allemandi con un testo di Alan Friedman) non ha risolto le contraddizioni della Grande Depressione del ’29, uno spauracchio che ogni tanto torna in scena, come in questo periodo di emergenza sanitaria e inevitabile crisi economica.
Periferie, armi, confini; e dunque povertà, emarginazione, violenza, stragi nel nome del suprematismo o della discriminazione. L’acqua inquinata di Flint, nel Michigan, che ti corrode la pelle; disoccupati e feroci reduci dal Vietnam; lavoratori sottopagati; un muro al confine con il Messico e i suoi guardiani a cavallo. Emerge il cuore di tenebra dell’America, che in fondo altro non è se non una gigantesca periferia, dal West Virginia all’Arizona, dove vive Shilah, un navajo delle riserve che si è recato a Tucson per farsi curare da un morso velenoso e ora sta chiedendo l’elemosina per trovare i soldi del viaggio di ritorno.
Una Spoon River vivente: ecco, forse rispetto ai contadini di Dorothea Lange la differenza è questa, cioè il senso di rassegnazione alla miseria, morale ed economica, che traspare dagli sguardi e dalle storie dei cento personaggi ritratti.
Sono, tra le altre, le storie di Michael di Monessen, che si avvia a diventare una città fantasma; di Mary, la vedova di un medico di Los Angeles che è andata a invecchiare negli inquinatissimi territori delle miniere di carbone; di Francisco, 27 anni, per 25 negli Stati Uniti e poi rispedito in Messico; oppure di Angela, che ha appena speso l’equivalente di un’ora del suo lavoro per una bibita: tè freddo, neanche Coca-Cola.












