L’acqua nell’arte di Rowan: soggetto ma anche oggetto

La giovane artista inglese ama i materiali e i loro stati fisici, ma è con l’elemento liquido che ha instaurato uno stretto legame, influenzata dalla teoria idrofemminista di Neimanis: ne abbiamo parlato con lei

Una veduta della mostra «Tides in the Body», presso la C+N Gallery CANEPANERI
Francesca Interlenghi |  | Milano

C+N Gallery CANEPANERI presenta fino al 24 aprile la prima personale in Italia di Hannah Rowan (Brighton, Regno Unito, 1990), a cura di Tatiana Martyanova. La mostra intitolata «Tides in the Body» raccoglie le più recenti opere dell’artista che, attraverso sculture, installazioni, video, performance e suoni, esplora il tema dell’acqua, protagonista di un «legame liquido» tra il corpo e i sistemi geologici ed ecologici.

Trattandosi della sua prima personale in galleria, vorrei innanzitutto chiederle come lo spazio espositivo ha influenzato la scelta delle opere e l’allestimento della mostra.
La curatrice ed io volevamo che in ciascuno degli spazi della galleria fossero presenti media differenti, ma che tutti fossero collegati al tema della mostra. In quello principale sono esposte una serie di opere scultoree realizzate con materiali diversi: acciaio, bronzo fuso, vetro soffiato, ghiaccio, rame e ceramica. Ho un approccio piuttosto schematico all’installazione, utilizzo elementi strutturali che invitano lo spettatore a posare lo sguardo ad altezze diverse, dal pavimento fino al soffitto al quale, in questa occasione, è appesa un’opera in ceramica.

Da subito abbiamo pensato che l’altro spazio della galleria, attiguo a quello centrale, fosse perfetto per ospitare l’opera video della performance che ho realizzato in Groenlandia la scorsa estate, durante una residenza artistica. In una delle scene tengo a contatto con il mio corpo nudo un grande blocco di ghiaccio che si scioglie, mentre in un’altra mi sdraio su un iceberg galleggiante che si muove con le maree. Il fatto che il video sia separato dal resto dei lavori fa si che lo spettatore, uscendo dalla galleria, riguardi le opere scultoree, in particolare i calchi in bronzo delle mie mani che tengono il ghiaccio che si scioglie, attribuendo loro nuove significazioni.

La sua ricerca è strettamente legata al tema dell’acqua. Ne esplora la complessità e la varietà di significati, influenzata anche dalla teoria idrofemminista della ricercatrice canadese Astrida Neimanis. Può dirmi di più a riguardo?
L’acqua scorre attraverso i corpi, le specie viventi e la materia. Nel mio lavoro l’acqua è al contempo soggetto ma anche oggetto, materiale vitale che interviene nella trasformazione delle mie sculture. Nella mostra l’acqua è contenuta all’interno di recipienti di vetro, in altri casi è essa stessa un recipiente di ghiaccio che si scioglie. Aderire alla teoria idrofemminista significa comprendere che tutti i corpi sono fatti d’acqua e sono intimamente interconnessi e dipendenti tra loro.

Gli studi di Neimanis, estendendosi dal micro al macro, prendendo in considerazione tanto i cambiamenti climatici e gli eventi meteorologici, quanto l’intimità delle persone, penso al sudore, l’urina e il latte materno, hanno molto influenzato il mio lavoro. L’idrofemminismo riprende le idee espresse nell’ecofemminismo e nel nuovo materialismo femminista, sposta il baricentro del pensiero da una prospettiva antropocentrica a una acqua-centrica, esprimendo solidarietà e affinità con il mondo non umano. Nel mio lavoro, il corpo e l’acqua, letti attraverso la lente idrofemminista, servono a comprendere che «tutti siamo corpi d’acqua». Non siamo entità solide contenute in un perimetro delimitato, ma esseri fluidi e porosi, che l’assorbono l’acqua e la rilasciano trasformandosi.

In riferimento a quelli che lei definisce «corpi d’acqua», ha scelto la frase di Virginia Woolf «There are tides in the body», tratta dal romanzo Mrs. Dalloway, come titolo della mostra. Qual è il rapporto tra il corpo e l’acqua e come prende forma nella sua produzione?
Nei suoi romanzi, Virginia Woolf fa spesso riferimento all’acqua per riferirsi alla psiche dei suoi personaggi. Sento che questa frase aiuta a evocare un’intima incarnazione dell’acqua, che ci mette in relazione con i movimenti del mondo non umano. Per me è anche una proposta meditativa, un invito a rallentare e sentire le maree nei nostri corpi, respirare con il loro flusso e riflusso.

Preparando la mostra, mi sono interessata molto al regno intertidale, il confine mutevole in cui la terra e il mare si incontrano, e ai corpi porosi di ostriche, alghe e polpi che dimorano tra le maree. Mentre facevo ricerche in Groenlandia, ho trascorso del tempo con il ghiaccio che si scioglieva mentre veniva trasportato e modellato dai movimenti delle maree. Il video esplora proprio questa vicinanza attraverso la performance. Uso il mio corpo come strumento di ricerca per comprendere i comportamenti della materia, attraverso il tatto.

Muovendo dalle riflessioni di Nicolas Bourriaud, vorrei approfondire i temi della caducità e della fragilità nel suo lavoro. Un’«estetica della precarietà», si potrebbe dire citando il critico e curatore d’arte francese, in cui la durata fisica dell’opera non corrisponde necessariamente alla durata dell’opera come informazione. Il ghiaccio si scioglie, i movimenti delle maree determinano confini effimeri… Potrebbe approfondire questo aspetto?
Quando presento un lavoro precario, effimero o in divenire, rivolgo un invito a rallentare, a testimoniare qualcosa che cambia in presenza dello spettatore, lo esorto a rivisitare con consapevolezza ciò che si è sciolto, dissolto o evaporato. Perché rimangono comunque le tracce di ciò che è avvenuto: l’acqua si è depositata nei vasi o ha formato delle pozzanghere o ancora ha interagito con l’argilla o il sale. Mi interessa molto riflettere sulla durata dei materiali, generando un dialogo asincrono tra il tempo delle sculture e quello della materia. Nelle mie sculture i materiali si organizzano autonomamente, si trasmutano e trasformano.

Il ghiaccio si scioglie, l’argilla si assorbe e si secca, il sale si cristallizza, il rame si ossida, come nell’opera «Vessels of Touch» in cui il verdigris, virando continuamente tra le tonalità del verde e del turchese a seconda dell’umidità o dell’aridità delle condizioni atmosferiche, diventa il colore dell’impermanenza. Sono affascinata dalla vivacità dei materiali che utilizzo. Anche i pezzi di ceramica, bronzo, vetro e lava, pur nella stabilità delle loro forme, rivelano comunque le impronte del gesto e del tatto. I processi sono elementari, quasi alchemici, e determinano una sorta di rinascita della materia: si tratta di modellare, essiccare, lavorare con il fuoco, raffreddare in un liquido per dar vita a forme nuove.

Questo suo interesse per l’utilizzo dei materiali, non meramente estetico o al servizio della produzione artistica, affonda le radici nel materialismo femminista che rifiuta l’idea di una natura essenziale e immutabile. Può spiegare come questo movimento abbia influenzato la sua pratica?
Il nuovo materialismo femminista articola un pensiero che io sto esplorando fisicamente con un approccio sensoriale alla materia. Citando Karen Barad (teorica femminista americana, NdR), si potrebbe dire che il mio lavoro riguarda un intreccio dinamico e mutevole di relazioni. Insieme al gruppo di accademici con i quali condivido le mie ricerche, ho approfondito le teorie di Astrida Neimanis, Donna J. Haraway, Rosi Braidotti e Nancy Tuana.

È importante per me avere uno spazio di discussione con gli studiosi del materialismo femminista, ma come artista imparo molto anche dagli incontri con le persone, che poi hanno ricadute sul lavoro che realizzo in studio. Svolgo ricerche sul campo che comprendono la scrittura, la performance e registrazioni in loco. Ho fatto residenze artistiche alle isole Svalbard e in Groenlandia, per imparare direttamente dalle molteplici forme del ghiaccio che si sciolgono, perché parte fondante della mia metodologia consiste proprio nell’usare il mio corpo come strumento di ricerca.

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