Krzysztof Pomian: «C’è un conflitto fondamentale tra l’ideologia ecologica e l’istituzione museo»

Secondo il grande studioso della storia della cultura, in un futuro in cui i problemi di sopravvivenza si faranno sempre più pressanti, le collezioni pubbliche potrebbero non essere più una priorità degli Stati e degli stessi visitatori

Krzysztof Pomian. Foto Magdalena Wiśniewska-Krasińska
Carole Blumenfeld |

Filosofo, storico e saggista polacco di origini francesi (è nato a Varsavia nel 1934, ma è emigrato in Francia nel 1973), Krzysztof Pomian ha trascorso l’intera carriera accademica presso il Cnrs-Centre national de la recherche scientifique di Parigi (di cui è diventato direttore onorario), mentre insegnava all’École des hautes études en sciences sociales, all’École du Louvre, all’Università di Ginevra e in altre università straniere. La sua attività di ricerca si è focalizzata sulla filosofia della conoscenza, la storia della cultura europea, la storia della storiografia, delle collezioni e dei musei. A settembre presso l’editore parigino Gallimard è stato pubblicato il terzo volume del suo monumentale progetto storico-culturale Il Museo, una storia mondiale, intitolato À la conquête du monde, 1850-2020 (i primi due volumi sono stati tradotti in Italia da Einaudi: Dal tesoro al museo nel 2021 e quest’anno L’affermazione europea, 1789-1850).

Lei si definisce un filosofo o uno storico?
Sono un filosofo di formazione, ma mi sarebbe piaciuto studiare anche storia. Mi è capitato di essere chiamato storico dell’arte, cosa che considero un onore anche se so di non esserlo. Mi interessa la storia sociale della cultura, senza abbandonare nel mio approccio una prospettiva filosofica.

È nato a Varsavia nel 1934 e, dall’età di sei anni, dopo l’evacuazione della città, con la sua famiglia è stato in Kazakistan, poi in Belgio, prima di tornare in Polonia per i suoi studi.
Il viaggio in Kazakistan è stato scortato dalla polizia; la partenza per il Belgio è stata volontaria. Non so se la mia scelta professionale sia legata a queste esperienze biografiche, non l’ho mai vista così. Quando avevo 16 anni, in una libreria a Bruxelles, ho comprato I tre moschettieri di Alexandre Dumas, lo dico per non lasciar credere che fossi troppo serio per la mia età, e I dialoghi di Platone. Poi ho comprato Etica di Spinoza e, ovviamente, dopo tre pagine, non ci ho capito niente. Fermamente determinato a capire e credendomi un marxista, ho quindi studiato filosofia.

Perché ha scelto il periodo moderno?
La mia formazione frammentata tra Kazakistan, Polonia, Belgio e di nuovo la Polonia mi ha impedito di studiare le lingue antiche. Poi c’è stato un fattore determinante. Il mio relatore di tesi, Leszek Kołakowski, specialista tra gli altri di Spinoza, ebbe un colpo di genio quando discutevamo della mia materia di dottorato nel dicembre 1957: facendomi notare che nessuno si occupava di Pierre Bayle da cinquant’anni, mi propose di prenderlo in considerazione. Grazie ai miei buoni rapporti con il direttore della biblioteca di facoltà, ho potuto prendere in prestito i quattro volumi del dizionario storico e critico di questo autore seicentesco. Ho discusso la mia tesi nel 1965 su «La nascita della scienza storica moderna. La scuola francese di erudizione, secoli XVI-XVIII». Venne pubblicata molto più tardi con il titolo Il passato, oggetto di conoscenza.

Successivamente si è rivolto al Medioevo.
Con la mia tesi di abilitazione, discussa nel 1968, intendevo mostrare che una rivoluzione epistemologica nel modo di apprendere il passato si era già verificata nel XVII secolo. Bisognava quindi definire quale fosse l’«Ancien Régime» contro il quale si fece questa rivoluzione. Come, prima degli umanisti del Quattrocento e degli eruditi del Cinquecento, ci si posizionasse rispetto al passato storico. Per comprendere lo stato del passato nel pensiero medievale mi sono immerso nelle cronache e nei testi teologici. Claude Lévi-Strauss, di cui ho letto l’intera opera, mi ha insegnato che per capire i «selvaggi» era necessario identificare i presupposti impliciti del funzionamento della loro organizzazione sociale e del loro pensiero. Ho cercato di studiare i miei «medievali» da questa prospettiva...

Il suo interesse per le collezioni nasce da questi lavori sulla storia?
Mentre preparavo la mia tesi di dottorato ho trovato una lettera di Claude Saumaise (umanista del XVI secolo, Ndr), in cui descriveva una visita a uno dei suoi colleghi dell’Università di Leida. Aveva visto, nella sua piccola collezione di antichità, un oggetto che gli permetteva di capire un passaggio greco lacunoso che stava poi cercando di restaurare per un’edizione. Questa lettera mi ha fatto pensare. Più tardi, mentre ero a Varsavia, ho scoperto l’esistenza del Museo dei Monumenti Francesi di Alexandre Lenoir (creato e diretto da Lenoir dal 1795 al 1815, riuniva opere importanti recuperate dopo la confisca dei beni del clero e della nobiltà secondo le indicazioni della Rivoluzione francese, Ndr) e l’ho incluso nelle mie riflessioni sulla collezione. Sono arrivato in Francia nel 1973, con un progetto di ricerca al Cnrs sulla ricerca storica nel Settecento in Francia, ma mi sono imbattuto in cataloghi di vendita parigini, che non avevo mai visto a Varsavia.

Quindi la sua prima ricerca ha preceduto la traduzione francese (1991) di «Mecenati e pittori» di Francis Haskell?
Haskell e io in seguito siamo diventati amici, ma all’epoca non sapevo nemmeno che esistesse. Eravamo un massimo di dieci persone che lavoravano su questo argomento, ciascuna isolata dalle altre. La storia del collezionismo è diventata una sorta di disciplina solo negli anni Ottanta. In precedenza, gli storici dell’arte erano quasi gli unici a interessarsene, nell’ambito della ricerca sulla provenienza delle opere. Quello che mi interessava era il collezionismo come fenomeno antropologico e storico. Questa è la prospettiva che ho adottato nel mio articolo pubblicato sull’Enciclopedia Einaudi nel 1978.

Che cosa è cambiato nel suo concetto di collezione tra il 1975 e oggi?
Nel 1975 avevo una conoscenza molto limitata della storia delle collezioni. Ora ho scritto tre volumi in cui integro la storia dei musei dal Quattrocento ai giorni nostri nella storia millenaria delle collezioni.

Il museo è una nuova forma di tempio?
In un tempio si può accendere una candela davanti a una Natività, anche se è opera di un grande artista. Mettere una candela davanti a un’opera del XV secolo in un museo farebbe scandalo, ed è giusto che sia così. Un tempio manifesta e serve a manifestare credenze religiose che si riferiscono all’aldilà. Un museo si occupa di credenze terrene. Alcuni musei sono luoghi in cui si celebra la creatività umana, artistica, tecnica, scientifica, o si conserva la memoria della creatività criminale perché non si ripeta: è il caso dei musei dedicati all’Olocausto. L’obiettivo non è rendere grazie a una divinità, ma conservare gli oggetti affidati al museo per un futuro indefinitamente lontano.

Il 24 agosto 2022 il Consiglio Internazionale dei Musei (Icom) ha adottato una nuova definizione di museo, sostituendo la nozione di «diletto» con quella di «intrattenimento». Che cosa ne pensa?
L’introduzione della nozione di intrattenimento non mi sconvolge. In effetti, sarebbe difficile credere che tutte le persone che visitano i musei che espongono Diplodocus vadano a studiare paleontologia. Stanno cercando lo stupore.

Qual è il suo approccio in materia di restituzioni?
Non esasperiamo la questione. La Chiesa cattolica potrebbe rivendicare molte delle opere che si trovano nei musei. Si comporta bene e non lo fa. Che cosa deve essere restituito? I prodotti del bottino di guerra. Ma non possiamo riscrivere la storia: non possiamo affermare, ad esempio, che i permessi di scavo concessi dall’Impero ottomano a Lord Elgin fossero illegali perché il sultano non li avrebbe rilasciati.

Il British Museum non dovrebbe quindi restituire i marmi del Partenone?
Legalmente, secondo me, il museo non ha motivo di restituire i marmi. Da un punto di vista etico e per buone relazioni tra i popoli, sarebbe bene trovare una soluzione intelligente a questa domanda. D’altra parte, il British Museum dovrebbe senza dubbio restituire i bronzi del Benin. La negoziazione preventiva tra i conservatori dovrebbe portare a una soluzione ottimale. Le restituzioni non devono essere un tentativo di cancellare la storia, per quanto crudele e sanguinosa possa essere stata.

Lei menziona anche le restituzioni che la Russia dovrebbe effettuare...
La Russia non ha restituito tutto ciò che era stato preso dall’Armata Rossa dopo la seconda guerra mondiale. Con l’approvazione di una legge nel 1998, la Duma ha bloccato qualsiasi processo di restituzione. L’esempio del Tesoro di Priamo è emblematico. Fu lasciato in eredità da Heinrich Schliemann al Museum für Vor- und Frühgeschichte (installato per un certo periodo nell’attuale Martin-Gropius Bau), a Berlino. Poi fu sequestrato dall’Armata Rossa ed è ora esposto al Museo Puskin di Mosca. Allo stato attuale, la situazione è bloccata, in nome del presunto risarcimento per i danni causati dalla Germania nazista in Unione Sovietica. Spero che un giorno la Russia cambierà.

Il Museo dell’Ermitage e il Museo Puskin dovrebbero restituire le collezioni sequestrate dopo la Rivoluzione russa?
Oh no! Tra la nazionalizzazione e il saccheggio di oggetti ci sono tutte le differenze nel mondo. La nazionalizzazione operata dalla Rivoluzione francese creò un precedente molto forte. Il Louvre non ha restituito le opere appartenute ai re di Francia o agli aristocratici dell’Ancien Régime. Luigi XVIII e Louis Auguste de Forbin, che prese il testimone da Vivant Denon, fecero di tutto per restituire il meno possibile. L’atto di nazionalizzazione dei beni della Corona, della Chiesa o degli aristocratici è di competenza della Repubblica francese, dello Stato francese, che era sovrano e metteva virtualmente le opere a disposizione di tutti. Le collezioni russe furono nazionalizzate da uno Stato nel suo pieno diritto. Sergej Schukin prevedeva che la sua collezione sarebbe diventata un museo. Quello che è scandaloso, invece, è che i proprietari non abbiano ricevuto, per quanto ne so, alcun compenso e che le collezioni di Sergej Schukin e Ivan Morozov siano state divise tra Mosca e San Pietroburgo. Sarebbe necessario riunirle e dare al museo il nome dei collezionisti per rendere loro giustizia.

È ottimista sul futuro dei musei?
No, i musei non usciranno indenni dalla pandemia. Secondo l’Icom, il 10% dei musei che hanno chiuso non riapriranno più. Inoltre, sappiamo che le collezioni che sono state digitalizzate e messe online hanno riscosso molto successo. È probabile che una parte del pubblico che ha preso l’abitudine di guardare le opere online non tornerà al museo, perché non tutti sono consapevoli della differenza tra un’immagine digitale e la percezione diretta dell’oggetto. Infine, e questo è ciò che mi sembra più grave a lungo termine, il riscaldamento globale porrà enormi problemi, compreso quello del risparmio energetico. Ne abbiamo già un assaggio: la città di Strasburgo chiude i suoi musei due giorni alla settimana per risparmiare energia. C’è anche un conflitto fondamentale tra l’ideologia ecologica, che è in procinto di imporsi come ideologia dominante delle nostre società, e l’istituzione museo. Il museo è orientato verso un futuro infinitamente lontano e presuppone che i nostri discendenti abbiano le nostre stesse curiosità, che ammirino gli oggetti che abbiamo conservato per loro, altrimenti non avrebbe senso trasmetterli loro. Tuttavia, la prospettiva che si impone alla mente delle persone è quella di un mondo in cui i problemi di sopravvivenza assumeranno una dimensione tutta nuova, con incendi ripetuti, innalzamento del livello del mare, moltiplicazione delle epidemie... In queste condizioni è improbabile che i nostri discendenti avranno il tempo di ammirare capolavori. I musei, che sono istituzioni strutturalmente in perdita, non saranno più priorità statali. L’ideologia ecologista apre una prospettiva che se non è incompatibile, è quantomeno difficilmente conciliabile con i musei.

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