Kiki Smith è cambiata
Un ritratto dell’artista americana tra antiche fascinazioni e nuove produzioni (in mostra da Lorcan O'Neill), tutte orientate verso la cosmogonia del Mediterraneo

Kiki Smith è cambiata. Ha legato la sua nuvola di capelli in due lunghe, strette trecce e appare più magra, diafana, ispirata di quando nel 2005 venne a Roma per presentare la sua mostra da Lorcan ‘O Neill. Allora Lorcan aveva una galleria piccola, nella più segreta parte di Trastevere, tra il carcere di Regina Coeli e gli argini del fiume. Lì Kiki era sbarcata con tutto il suo immaginario favolistico fatto di lupi, donnine dormienti, fantasmini in gesso e porcellana, disegni a punta di matita simili a illustrazioni per libri di bimbi anglosassoni, ma in versione inquieta e dilatata in carte stropicciate grandi quanto un’intera parete.
In quelle pareti e in quelle due stanze ci aveva regalato un universo di gioco, stupore e paura che arrivavano da un’infanzia remota. L’aveva descritta quell’infanzia: il padre architetto, scultore e pittore; il nonno cattolicissimo intagliatore d’altari del New Jersey; la madre cantante lirica e una sorella anche lei artista. Spiegava ai cronisti di essere figlia d’arte, una bambina del New England nata nel 1954 ed educata da una famiglia dove nessuno guardava la televisione: «Sono cresciuta tra persone che facevano materialmente le cose con le loro mani» raccontava « Fin da piccola ho pensato che questo fosse l’unico modo di esprimersi e lo penso ancora».
Nel 2005 parlava così. Ora forse non lo direbbe più, non in questo modo, si suppone osservando la messa in scena di grandi sculture in bronzo che s’impongono sugli spazi della bella e nuova galleria di Lorcan (fino al 17 settembre). Anche lui è cambiato, ha acquistato ben altre dimensioni, nel cuore barocco della città e nello spazio esteso del palazzetto che si affaccia sul cortile con tanto di scrosciante fontana a due passi da Campo de’ Fiori. È lì che Kiki «prima della prima» si aggira con le sue tuniche nere e tutti quei puntini celesti tatuati come una costellazione sul suo corpo. Spiega la sua mostra, il perché del toro e del capro, dell’aquila e del gufo, del capricorno che è anche il suo segno zodiacale e di quelle sirene dalla lunga coda tutte intagliate nella lamiera come bambole di carta.
Racconta come le favole nordiche che echeggiavano fate, boschi e streghe abbiano ceduto il posto alla mitologia mediterranea e a un pantheon di bestie e ritualità molto lontane dalla formazione di una ragazza americana che finora ci sembrava più vicina al paese delle meraviglie di Alice che alla Circe di Odisseo.
Galeotta fu Hydra. La piccola isola amata da Onassis e Leonard Cohen, ma anche dal grande collezionista e mecenate Dakis Joannou che ne ha fatto la seconda sede della sua Deste Foundation (dopo Atene) e meta per i più esclusivi tour dell’arte contemporanea. Ogni estate: un artista, e che sia ben noto. Ogni inaugurazione: un evento, bagno di folla e di celebrities.
Non è la mondanità antica e presente o la passerella di Vip del mondo dell’arte ad aver cambiato la cosmogonia di Kiki, la quale non sembra particolarmente interessata a questo aspetto dell’art system. Quello che l’ha folgorata è stato il Mediterraneo, l’immobilità della Grecia, la «visione del mare che incontra il cielo» (dixit), l’eternità del mito che si sostituisce alla leggenda, i ricordi di una donna che le parla di un mare rosso sangue di tanti anni fa, l’eco di antichi sacrifici, il nome stesso dell’isola: Idra, mostro dalle nove teste capace di uccidere anche solo con il respiro o l’orma delle sue zampe. Non c’è spazio qui per quei piccoli stupori e orrori domestici che le avevano fatto modellare donnine e fantasmini, raccontare la sua storia infinita o disegnare con tratto sottile boschi fitti di insetti, foglie, fiori e magie.
Qui, in questa terra antica e madre del nostro pensiero, regna l’assoluto. Il vento, la luce, la notte. Kiki risponde con la forza del bronzo. Rinuncia all’immediatezza del suo fare artigiano, ma accresce il suo bestiario fantastico di nuove ibride creature. Una sirena che è quasi autoritratto, un caprone con coda di pesce, gli intestini di una pecora come simbolo di sacrificio, un gufo aggrappato al suo trespolo. Sono sculture grandi, potenti, evocative, inquietanti. Non abitano le cucine, le vetrine delle credenze, le carte da parati, le pagine di un libro lasciato su un comodino. Non fanno più parte di quella storia domestica dove la violenza esiste strisciante ma è tamponata e nascosta, come i ragni che sbucano dalle carte da parati a fiori.
Quella magia, quell’incanto che Kiki sapeva catturare nei suoi disegni, nelle sue ceramiche e nei suoi gessi; quella narrazione continua e sussurrata come la cantilena di una nutrice; quel fare operoso così femminile e arcaico, quel filo con cui lei così bene «sapeva tenere insieme il passato e il presente, la realtà e il sogno, la fiaba e il racconto» (come aveva scritto Chiara Bertola nel curare una straordinaria sua mostra alla Querini Stampalia nel 2005). Insomma, quella sua speciale magia è stata qui riassorbita dalla potenza della cultura classica che in qualche modo l’ha intimidita e costretta a un compito all’altezza del tema.
Quel compito lei lo ha svolto, con sapienza e mestiere. E con coraggio ha sperimentato un’altra dimensione di sé. Eppure resta nell’aria la nostalgia per la leggerezza delle sue carte, la vibrazione delle sue matite, la capacità di leggere tutto il bello e il terribile che si nasconde nelle intercapedini del quotidiano. Qui ci sono belle sculture, ma là c’era un mondo.