Kader Attia dopo il pensiero «decoloniale»

La Biennale di Berlino si estende a cinque diversi siti nella città. Per l’artista coinvolto in veste di curatore, liberarsi del pensiero e dell’azione ereditati da più di 500 anni d’ideologie coloniali comporta la ricerca di una nuova retorica

«…and to those North Sea Waves Whispering Sunken Stories (II)», (2021) di Sammy Baloji. Foto dotgain.info
Dimitrios Spyrou, Philippe Régnier |  | Berlino

Fedele alla sua pratica visuale, l’artista franco-algerino Kader Attia pone al cuore della 12ma Biennale di Berlino i concetti di riabilitazione e di terapia. Se per lui «lenire le ferite» significa prendere parte a un discorso di resistenza culturale, l’obiettivo diventa coinvolgere i visitatori in un dialogo critico capace di «prendersi cura del presente», di disfare la narrazione coloniale percorrendola «à rebours», in senso inverso, e formulando collettivamente nuove vie per l’avvenire.

Perché ha scelto il colonialismo e il suo impatto sulla società come tema centrale della manifestazione?
Una delle questioni chiave della 12ma Biennale di Berlino concerne il colonialismo e il modo in cui ne parliamo oggi, un dibattito continuo che va ripensato giacché i regimi imperialisti d’occupazione e oppressione hanno continuato a persistere mentre i crimini dell’epoca moderna, quali la schiavitù, il colonialismo e il fascismo, hanno lasciato delle profonde ferite nel nostro mondo. L’Occidente ha basato il suo capitalismo sistemico sullo sfruttamento razzista e sul genocidio delle popolazioni non occidentali e del loro ambiente naturale, finendo per rivoltare questo odio contro una parte della sua stessa popolazione. Il modernismo era e resta come ossessionato dal suo mito di perfezione uniforme da cui sono germinati l’antico e il nuovo fascismo. I traumi collettivi da lui prodotti non sono mai stati curati e di conseguenza, tormentano le nostre società. Per quale motivo non è mai stata intrapresa alcuna misura a riguardo? La sola domanda innesca un processo di riparazione materiale e immateriale. Questa è la missione che la Biennale si prefissa attraverso mostre ed eventi paralleli, presentando diversi approcci di artisti e di collettivi, sempre in bilico tra atto discorsivo politico e processo poetico. L’arte può iniziare un processo di autonomizzazione inventiva e creativa riappropriandosi del presente, interpretandolo come uno spazio-tempo dell’attenzione e dell’emozione e soprattutto indicando vie d’uscita alla manipolazione di cui saremo sempre più vittime, quella che il filosofo Bernard Stiegler chiama «governamentalità algoritmica». La società dell’informazione digitalizzata nella quale viviamo ci toglie la nostra sovranità comportamentale per ragioni economiche visto che l’attenzione dello spettatore, in questo impercettibile presente, è permanentemente oggetto del mercato dei comportamenti e della dominazione imperialista che lo accompagna.
Nil Yalter, «Estranged Doors» (1983) e «Exile Is a Hard Job» (1983/2022) di Nil Yalter.  Foto Silke Briel
L’arte ha il potere di correggere le norme sociali e le idee esistenti?
Gli artisti sono sempre stati una componente forte nella società, pur potendo operare unicamente nel quadro cristallizzato del modernismo e del capitalismo neoliberale. Volevo trovare il modo di evitare queste costrizioni costruendo un dialogo collettivo arricchito da implicazioni politiche. Questo risulta possibile nella vita quotidiana e in politica. Ritengo che sia importante (ri)trovare il modo di far dialogare campi differenti di ricerca ed «expertise». Ho sempre considerato gli artisti e la loro capacità di produrre «il campo dell’emozione» (ispirato dalla catarsi aristotelica) come entità multidisciplinari e quindi aperti ad altre dimensioni del pensiero e della creazione. Penso che un progetto come la Biennale di Berlino debba essere diffusa non solo fisicamente nello spazio urbano ma in tutta l’arena epistemologica della società. I militanti, gli scienziati, gli scrittori, i cineasti, i musicisti dovrebbero essere tutti coinvolti nelle mostre ammesso che la loro presenza contribuisca alla creazione di un pensiero in relazione con l’altro. Sono in programma diverse performances che mescolano musica e forme non tangibili di arte, come quella del formidabile artista Uriel Orlow per esempio… o ancora il collettivo L’école des Mutants di Dakar. Nello stesso tempo bisogna arrivare a toccare anche coloro che non hanno gli strumenti per decodificare l’opera al fine di creare un dialogo, uno spazio d’incontro e di coesistenza che parta dall’arte.

Secondo quali modalità deve avvenire la decolonizzazione dell’arte che lei invoca?
Il pensiero «decoloniale» è una realtà intoccabile della nostra epoca. Dobbiamo riesaminare la narrazione storica ormai data per scontata poiché in essa sussistono diversi vicoli ciechi. Ciò che la psicanalista algerina Karima Lazali chiama l’«impensato coloniale» ad esempio. Il ristabilirsi della verità non deve essere un atto metaforico: necessita di azioni che rendano visibile il razzismo sistemico delle società non occidentali nei confronti dei non-bianchi, che sia nell’amministrazione, nella polizia o nell’università. Il razzismo nasce dal mito della razza e la sua creazione ha permesso agli Occidentali bianchi d’inventare la loro superiorità sui non-bianchi. Questa superiorità è inaccettabile… ma decostruirla fa parte di un lungo e minuzioso lavoro. In quanto artista, non sono favorevole alla censura di opere del passato con il pretesto ch’esse risultino agli occhi del contemporaneo troppo problematiche, anche se eticamente lo sono. Quest’operazione potrebbe sancire l’inizio di una nuova forma di revisionismo… E poi queste opere testimoniano di tradizioni ancor ben ancorate. Alcuni musei classici conservano opere consacrate a persone e a temi di stampo coloniale che non vanno cancellati ma emendati attraverso un discorso critico «decoloniale» e vivo, al fine di spiegare le origini di questa iconologia. Decolonizzare le arti significa reinventare la nostra percezione. La Biennale di Berlino s’interessa anche alla questione dell’eredità culturale dei popoli colonizzati spesso diffusa in tutti i musei del mondo occidentale ma completamente assente nei Paesi di origine.
Binta Diaw, «Dïà s p o r a» (2021) di Binta Diaw
Che cosa verrà dopo il pensiero «decoloniale»?
Penso che sia proprio il «dopo» a essere l’obiettivo cruciale: forse un contributo per la sinistra a reinventarsi giacché come dice Enzo Traverso la sinistra non è mai stata «decoloniale» (non confondiamo però anticolonialista e «decoloniale»). Vorrei che questa discussione fosse permanente e capace di evolvere con la società stessa. Per esempio, riguardo alle restituzioni, dovremmo alimentare il dialogo con nuove idee. Quello che manca oggi è un nuovo vocabolario per trattare i conflitti contemporanei, uno che non sia radicato nel colonialismo, uno che stiamo ancora cercando. È una questione ardua e per questo abbiamo più che mai bisogno dell’arte e della creatività.

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