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Invece di polemizzare ecco tutto quello che non avete mai chiesto

Massimo Montella

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Le Soprintendenze uniche hanno suscitato le critiche più diverse. Molte non attinenti. Per altre è presto detto: «Belle Arti» è un titolo che sa di vecchio (ma conta la sostanza); meglio se il provvedimento fosse stato adottato prima e con un unico atto (ma, se è giusto, meglio tardi che mai e meglio in due fasi che in tre); serviva un ampio confronto (ma che avrebbe dovuto concludersi come?).

Nel merito alcuni asseriscono (ma non dimostrano) che la riforma violerebbe l’art. 9 della Costituzione. Però gli stessi non hanno mai chiesto il rispetto di questa norma, che attribuisce la tutela del patrimonio alla Repubblica e, dunque, anche agli enti territoriali e non alla sola amministrazione centrale dello Stato. Si sostiene, poi, ma senza spiegare in che cosa consista il cambiamento, che i soprintendenti verrebbero asserviti alla politica. Ma non si tratta di funzionari pubblici? Che altro dovrebbero essere? Chi, in democrazia, dovrebbe sostituirsi alla politica nell’esercizio del governo? Non è forse per questo che occorre impegnarsi nella valorizzazione del patrimonio culturale, affinché i cittadini, riconoscendone l’importanza, l’utilità, scelgano amministratori che ne assicurino la tutela? Ci sono poi archeologi secondo i quali l’unificazione segnerebbe la fine dell’archeologia, che non potrebbe convivere con altri specialismi. Ma andrebbe almeno considerato che l’archeologia non è più cronologicamente confinata alle «antichità» e che le Soprintendenze uniche saranno articolate in aree funzionali, fra cui archeologia, storia dell’arte, architettura ecc., ciascuna delle quali concorrerebbe con le altre a un’opera di tutela unitaria, interdisciplinare, diacronica. Del resto mesi prima erano stati gli storici dell’arte a dirsi terrorizzati dal rischio di essere «dissolti di fronte agli architetti».

Tralasciando le motivazioni corporative, è da quasi mezzo secolo, però, che autorevoli studiosi denunciano la insensatezza della ottocentesca scomposizione metodologico-disciplinare del carattere unitario del patrimonio e che invocano, perciò, il superamento dei particolarismi disciplinari, insistendo sul valore dei contesti e sulla necessità di studiare e amministrare il patrimonio quale insieme sistemico. A favore di una visione organica dei contesti culturali e perfino, espressamente, della unificazione delle Soprintendenze si sono spesi studiosi come Riccardo Francovich, Andrea Carandini, Carlo Pavolini, Gian Pietro Brogiolo, Sebastiano Tusa. Strano a dirsi rispetto al risalto che ottengono certe posizioni di oggi sulla stampa progressista, ma queste tesi, sostenute già dagli anni ’70 da riviste come «Archeologia Medievale» e «Dialoghi di Archeologia», erano «di sinistra». Era «di sinistra», per dirla con Pavolini, denunciare «la frammentazione delle Soprintendenze invece di prevedere una Soprintendenza territoriale unica».

Tuttavia le tante voci levatesi contro la riforma non hanno trovato modo di occuparsi di questioni ben altrimenti decisive per la qualità dell’azione delle Soprintendenze e, soprattutto e anzitutto, per la sorte di quel «museo diffuso» che in gran parte eccede i poteri ministeriali. Nessuno si è curato di chiedere che, a 12 anni dall’emanazione del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, venga finalmente chiarito quali siano le «esigenze della tutela», alle quali l’art. 6 subordina giustamente la valorizzazione, affinché sia possibile formulare previsioni attendibili per tempi e costi di singoli interventi e per programmi di gestione e di pubblica fruizione dei beni nel medio-lungo periodo, così anche da evitare che ogni soprintendente interpreti a proprio gusto la tutela in modo, dunque, di luogo in luogo difforme. Nessuno ha chiesto di normalizzare e semplificare il regime autorizzatorio connesso agli interventi di conoscenza, documentazione, conservazione e fruizione pubblica, al fine di favorire gli investimenti pubblici e privati per il corretto uso del patrimonio culturale.

Nessuno ha sollecitato norme regolamentari la cui assenza è causa del crescente abbandono di pratiche manutentive. Nessuno ha chiesto che i livelli di qualità di valorizzazione sui beni di pertinenza pubblica, imposti dall’art. 114, vengano finalmente adottati, per garantire il diritto di cittadinanza alla cultura e per così favorire la salvaguardia dei beni. Nessuno ha lamentato la mancanza di una omogenea e specifica formazione degli addetti alla tutela e alla valorizzazione, nonché di congrue modalità conseguenti di accreditamento e reclutamento anche dei soprintendenti, per far cessare la finzione che il titolo di soprintendente sia per se stesso una garanzia sufficiente. Nessuno ha chiesto che vengano rivisti i percorsi formativi universitari, nonché le attuali scuole di specializzazione. Nessuno ha chiesto che le Soprintendenze prendano a concepirsi non come insindacabili organi di polizia, ma come pubblici servizi capaci di stabilire con i cittadini un rapporto agile e trasparente e di integrare la tutela nei piani di sviluppo sociale ed economico dei territori. Nessuno ha chiesto di impegnarsi finalmente a conciliare la tutela del paesaggio con l’urbanistica.

Nessuno ha sollecitato una cooperazione fra Stato, Regioni e Comuni, centri di ricerca come il Cnr, Università, imprese e istituti centrali del Ministero finalizzata alla emanazione di norme tecniche e linee guida per la normalizzazione dei documenti tecnici di progettazione e per disciplinari d’uso a garanzia dei livelli di qualità della valorizzazione in funzione di una fruizione pubblica vista non come impedimento, ma come fine della tutela. Nessuno ha chiesto che centro e periferia, enti pubblici e privati cooperino finalmente sia per l’impianto di capisaldi territoriali per la conservazione preventiva e programmata del patrimonio, sia per l’organizzazione in rete dei musei, affinché questi possano prendere a funzionare come cardini di una minuziosa itineraria per la conoscenza e l’apprezzamento del «museo diffuso». Nessuno ha chiesto che le Soprintendenze unificate siano il punto di avvio di un tale percorso, nella consapevolezza che la tutela e la valorizzazione debbono essere agite a ridosso dei beni e che dunque occorrono strumenti e servizi calibrati su ambiti territoriali più circoscritti e omogenei. È stato però accoratamente chiesto di aumentare gli organici e le risorse finanziarie del Ministero. Auspicio pienamente condivisibile soprattutto per dare un qualche sollievo a due generazioni di laureati, specializzati, dottorati lasciati senza lavoro. Ben venga, dunque, come nel 1977, una nuova Legge 285 (per l’occupazione giovanile, Ndr).

Tuttavia, se il sistema della tutela non cambia profondamente, resta pur sempre il rischio di ritrovarsi a dire, come Giovanni Urbani nel 1988: «Tutti sanno di quanto è precipitosamente cresciuto in poco più di una decina d’anni l’organico delle Soprintendenze, per non parlare di quello del Ministero. C’è qualcuno capace di scorgere un sia pur minimo segno di progresso che si accompagni a questa crescita quantitativa?».

Massimo Montella, 02 marzo 2016 | © Riproduzione riservata

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