Imprenditorialità, cambiamento culturale e personale. Note sulle imprese femministe

Riflessione di Marta Equi Pierazzini, ricercatrice presso l’Università Bocconi

© Photo by Dida Biggi, courtesy Libreria delle donne di Milano
Marta Equi Perazzini |

Non si può sopprimere un mito finché non ci si sente in grado di praticare l’attività mitizzata. Ritirare astrattamente il mito non serve a niente. (…)
Forse per questo la prima iniziativa che ho preso nel femminismo è stata di formare questa specie di casa editrice.
(Carla Lonzi, 1976) [1]

IL DI PIÙ CHE È IN GIOCO
La serie di contributi di cui fa parte questo breve testo parte da una domanda che nella sua semplicità mi pare custodisca una promessa radicale: cosa possiamo dire di nuovo e di più sulla sfera della cultura attraverso lo sguardo di genere? L’interrogazione posta dalla “chiamata alle idee” si articola esplicitamente non solo su tematiche connesse ai processi di inclusione: “c’è di più”, si legge nella call, “la scommessa che le donne possano mostrare una nuova rotta.”
La presenza di quel di più mi ha convinta a scrivere.
Vorrei con queste breve testo mettere in luce il radicamento storico di queste interrogazioni menzionando la vicenda della fondazione di imprese culturali femministe che, articolate non solo secondo forme giuridiche diverse ma anche a partire da visioni politiche differenti, nel loro insieme, condividono alcuni punti potenzialmente interessanti per una riflessione come quella sollecitata da Flavia Barca e Letture Lente, perché vanno a strutturarsi proprio nel nesso che ci può essere tra operare femminile e cambiamento culturale.

IMPRESE FEMMINISTE
Il contributo dei femminismi e della loro storia è oramai consolidato nelle aree più innovative e meno mainstream dei Management e Organisations studies, che guardano a questo patrimonio di pratiche e teorie come una sorgente di idee capaci di offrire lenti di lettura per comprendere criticamente specifici aspetti del management (la questione della leadership o del decision making, per esempio), nuovi approcci metodologici ed epistemologici e strumenti critici capaci di cambiare riflessivamente il modo in cui studiamo le organizzazioni e possibilmente la disciplina stessa [2].
Considerando la storia del neo-femminismo italiano è possibile rintracciare esempi brillanti di articolazione di una critica radicale alla cultura e al potere come istituzioni del dominio maschile accompagnati però da sforzi imprenditoriali dedicati proprio a questo ambito.
A partire dalla metà degli anni Settanta il femminismo “inizia a produrre cultura” [3] aprendo una serie di iniziative quali Librerie delle donne, Case editrici, Riviste e progetti editoriali, Case delle donne, Centri di documentazioni e Biblioteche, etc. Le imprese fondate furono moltissime, alcune hanno resistito alla prova del tempo e svolgono tutt’oggi la loro funzione [4].
Ingaggiarsi con l’ambito culturale e farlo autonomamente significava innanzi tutto prendere le distanze da una sfera considerata come il sito principale dell’istituzionalizzazione della discriminazione, della generazione della violenza simbolica e, naturalmente, di un sessismo mascherato. Su questi punti le riflessioni di Carla Lonzi sono tutt’oggi irrinunciabili [5], tanto più se pensiamo alla situazione odierna, a partire da alcune evidenze emerse recentemente sulle violenze in ambito accademico a discapito di studentesse e ricercatrici [6], alla discriminazione silente che continua nel mondo dell’arte [7] e alle evidenze aneddotiche che tra lavoratrici della cultura ci scambiamo. L’atto concreto, e insieme la valenza simbolica di separarsi dalle istituzioni della cultura maschile per fondare realtà nuove, aveva poi la caratteristica di voler prendere in mano il destino della produzione culturale femminile: le varie iniziative a diverso titolo sono stati modi di riscoprire, valorizzare, commercializzare e preservare le parole e il sapere delle donne. Senza la casa editrice La Tartaruga (fondata a Milano nel 1975 da Laura Lepetit) [8] non avremmo avuto in Italia Le Tre Ghinee di Virginia Woolf, tanto per dire.
I modi della gestione erano sottoposti ad uno scrutinio continuo, in quanto dovevano essere necessariamente rispondenti alle idee e visioni politiche e venivano compresi mai come meri strumenti ma sempre come terreno di verifica delle idee proposte e dei propri atteggiamenti a riguardo. Inoltre, vennero cercati dispositivi di mediazione che andassero oltre i meccanismi formali delle organizzazioni burocratiche, nella ricerca di pratiche antigerarchiche e che non ricadessero nella dicotomia scoraggiante dell’avere o non avere potere. In ultima analisi, c’era l’idea che nell’ingaggiarsi con una attività imprenditoriale ne andasse del proprio sé: non solo perché le attività svolte rappresentavano la passione e l’identità delle donne coinvolte, ma anche perché vi era la ferma convinzione che non ci potesse essere trasformazione sociale alcuna senza una messa in gioco radicale di sé stesse. D’altra parte il femminismo si basa sulla convinzione che non ci sono strade possibili di liberazione né di emancipazione senza aver effettuato la tappa fondamentale della presa di coscienza.
In questo senso le imprese femministe fondate negli anni ‘70 costituiscono un patrimonio per noi che ci domandiamo come cambiare la cultura attraverso la partecipazione femminile. Esse ci mostrano che fare impresa (culturale) può essere qualcosa ben lontano dall’idea muscolare e individualista dell’imprenditore coraggioso che tanta letteratura ha perpetuato, ma piuttosto una “creazione e coltivazione di un contesto”, ossia delle condizioni di possibilità che un progetto e una visione si possano articolare a beneficio di una comunità, e di implicazione radicale di sé nel farlo, come suggerito dagli studi di Antonia de Vita [9]. Analizzando la storia dei luoghi delle donne, la loro visione fondativa e le loro pratiche organizzative, possiamo riformulare come azione imprenditoriale quella dedicata ad un cambiamento della società, possibile solo in presenza di un cambiamento personale [10].

MEMORIA E RIFLESSIVITÀ
Ricordare processi storici mi interessa particolarmente anche all’interno di una disciplina con difetto della memoria come sono i management studies e in contesti orientati al policy making dunque per definizione contemporanei, perché sento che sia importante prestare attenzione affinché la storia delle donne, in qualunque orizzonte politico essa si collochi, non venga obliterata. Questo ha una funzione assai pratica: quando riflettiamo su cose come il perché dell’inferiorità numerica delle artiste, l’importanza del linguaggio sessuato e come esso venga costantemente derubricato, l’efficacia del mentoring, il persistere del sessismo mediatico etc., ci poniamo domande che sono in parte già state poste, alle quali risposte o abbozzi di risposte sono già state date. Collocarci in una genealogia ci aiuta in altri termini ad evitare il rischio latente in questi esercizi della dispersione di energie femminili, in un faticoso processo di “ricominciare sempre daccapo”, che sembrerebbe il destino della mobilitazione pubblica delle donne [11].
Infine, dovendo riflettere sulla strategia dei nove punti come la call richiede penso che proporrei di arricchirla con un punto che sottolinei l’importanza di adottare uno sguardo critico, pratico e riflessivo verso la sfera della cultura di cui noi facciamo parte. La cultura e le istituzioni culturali non sono infatti oggetti al di fuori di noi, né semplicemente campi nei quali noi agiamo: noi facciamo cultura. Per questo la questione della riflessività mi sembra di cardinale importanza: prima di arrivare alle generalizzabili buone pratiche, domandiamoci intimamente: quali sono le specifiche pratiche che noi, in prima persona, come operatrici culturali mettiamo in campo? Questa domanda sposta il focus dell’agire, io credo, e possiamo anche rivolgercela una con l’altra, per aiutarci a far sì che la nostra azione punti in alto, ad una trasformazione più profonda della società e della cultura, una che inizi con noi.

*Articolo pubblicato nella rubrica "Letture lente" di AgCult, condiviso per gentile concessione dell'editore


NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
[1] Intervista di Michèle Causse a Carla Lonzi, 1976. In Chinese et al. (1977), È già politica, Scritti di Rivolta Femminile, Milano, pp. 103-109.
[2] Benschop, Y. and Verloo, M. (2016). Feminist Organization Theories. Islands of Treasure, in Mir, R. et al. (eds.) (2016): 100-112.
[3] Cutrufelli, M.R. et al. (2001). Il Novecento delle italiane. Una storia ancora da raccontare, Roma: Editori Riuniti.
[4] Si pensi, per esempio, per quanto riguarda il territorio milanese, alla Libreria delle donne di Milano (Fondata nel 1975), le case editrici Scritti di Rivolta Femminile (1970) e La Tartaruga (1975), progetti editoriali come Sottosopra (1973) e centri di documentazione come Centro Studi Storici sul Movimento di Liberazione della Donna in Italia (1979, dal 1994 Fondazione Elvira Badaracco). Per un focus sul territorio milanese si rimanda a A.R. Calabrò e L. Grasso, Dal movimento femminista al femminismo diffuso: storie e percorsi a Milano, Fondazione Badaracco e Franco Angeli,Milano.
Naturalmente vi sono molti altri esempi possibili in tutto il territorio italiano.
[5] Carla Lonzi (1974), Sputiamo su Hegel e altri scritti, Scritti di Rivolta Femminile, Milano; Carla Lonzi (1980), Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra. Scritti di Rivolta Femminile, Milano.
[6] L’inchiesta. Molestie, quello che le Università non dicono di Antonella De Gregorio, Elisabetta Rosaspina, Elvira Serra, Francesca Visentin (coordinamento Giovanni Viafora). La 27Ora, 10 dicembre 2020: https://27esimaora.corriere.it/20_dicembre_10/molestie-quello-che-universita-non-dicono-ecco-nomi-numeri-denunciare-1c01a136-3a2f-11eb-bd0f-1c432ae6dd98.shtml#tabelle?refresh_ce-cp
Sulle donne ricercatrici, il loro talento e la discriminazione, segnalo anche – un esempio tra molti altri possibili - la produzione teatrale “Le Eccellenti” di Marcela Serli, promosso dal Comitato Unico di Garanzia dell’Università di Trieste e dal CUG della SISSA e prodotto da Fattoria Vittadini di Milano, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro della Tosse di Genova. Con la collaborazione alla drammaturgia di Cinzia Spanò e Noemi Bresciani e collaborazione alla ricerca fonti di Sergia Adamo, Pilar de Cardenas, Patrizia Romito.
[7] Motherhood is taboo in the art world – it's as if we've sold out': female artists on the impact of having kids. Hettie Judah, The Guardian, 2 Dicembre 2020. https://www.theguardian.com/artanddesign/2020/dec/02/motherhood-taboo-art-world-sold-out-bourgeoisie
[8] Sulla storia della Tartaruga e della sua fondatrice si veda L. Lepetit (2016) Autobiografia di una femminista distratta, Roma, Nottetempo.
[9] Antonia De Vita (2004), Imprese di Amore e di Denaro. Creazione sociale e filosofia della formazione. Guerini e Associati. Sull’imprenditorialità femminile una ricerca cardine è quella di Helene Ahl (Ahl, H. 2002, The Making of the Female Entrepreneur A Discourse Analysis of Research Texts on Women's Entrepreneurship, JIBS Dissertation Series, 15).
[10] Su questo mi permetto di rimandare al mio lavoro di PhD, Equi Pierazzini, M. (2019), A legacy without a will. Feminist organising as a transformative practice. Tesi di dottorato in Analysis and Mangement of Cultural Heritage, IMT School for Advanced Studies, Lucca.
[11] Sull’eredità del movimento delle donne e sul suo processo di storicizzazione si veda Di Cori, P. (2012). Asincronie del femminismo: Scritti 1986-2011, Pisa: Edizioni ETS; Diotima (2002). Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione, Napoli: Liguori.

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