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Il restauro in Italia: bloccato da 77 anni

Bruno Zanardi

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Il restauro in Italia è ancora sostanzialmente gestito da una legge del 1939 basata sull’Editto del cardinal Pacca del 1820... Vale ancora quanto Argan illustrò ai soprintendenti nel 1938. Nessuno da allora ha spostato il problema dal restauro estetico delle singole opere alla conservazione programmata e preventiva del patrimonio artistico nella sua totalità e in rapporto all’ambiente. Sancendo la pretesa scientificità filologica dei restauri critico-estetici «argano-brandiani», il Ministero fondato da Spadolini, «nato morto», ha riproposto una legge «pensata per l’Italia del re e del duce». Avviene così che, in nome della superiorità critico-estetica rispetto a quella conservativa, i restauri vengono affidati a persone che mai ne hanno eseguito uno con le proprie mani, cancellando le nostre tradizionali sapienze artigianali

Da sinistra Cesare Brandi, Giovanni Urbani, Umberto Baldini e Giulio Carlo ArganQuesto testo nasce da una mia riflessione in vista della partecipazione a un Gruppo di lavoro ministeriale per l’adozione dei provvedimenti attuativi per il Codice degli appalti dei lavori di restauro delle opere che costituiscono il nostro patrimonio artistico. Ho inviato la mia riflessione a alcuni colleghi per avere un documento comune su cui confrontarci.

Aggiungo tre cose. La prima: il Gruppo di lavoro deve ancora concludere il proprio compito. La seconda: per ragioni di spazio in queste pagine è pubblicata solo la prima parte del testo. La terza: il testo è stato scritto prima del recentissimo terremoto ma questo lo rende purttroppo ancora più attuale. 

 

Premessa

Abbiamo il dovere civile e morale di assicurare alle future generazioni la sopravvivenza fisica del più importante e cospicuo patrimonio storico e artistico dell’Occidente, quello dell’Italia e degli italiani.

Il restauro è il settore della tutela ad aver avuto più di ogni altro una significativa crescita nei 77 anni che vanno dal corpo di leggi fasciste sulla tutela del 1939 ad oggi. Ciò specialmente grazie alle figure di Cesare Brandi, Giovanni Urbani e, per taluni versi, Umberto Baldini. 

Di vario genere e sempre fortissimi sono gli interessi di bottega della lunga serie di lobbies universitarie e ministeriali che nei 42 anni dalla fondazione del Mibact (1974) a oggi si sono formate e che tengono l’azione di tutela nell’inefficienza e nel dilettantismo a tutti noto. 

Bastino a riprova di ciò lo stupro della gran parte delle nostre coste marine, le immonde periferie delle città storiche, l’assenza di una qualsiasi forma istituzionalizzata di prevenzione dai rischi ambientali, sismici e idrogeologici, la mancata redazione di un catalogo del nostro patrimonio a 41 anni dalla fondazione dell’Istituto Centrale del Catalogo, l’isterico e sempre più afasico uso del restauro critico estetico, basti la Vela di Cimabue nella Basilica di Assisi, e qui mi fermo, ma potrei continuare ancora per molto.  

Nel 1983 (33 anni fa) Giovanni Urbani, allora direttore dell’Istituto Centrale del Restauro, concluse un lungo lavoro di ricerca sulle tecniche di prevenzione degli edifici storici dal rischio sismico. Quando una giovane ispettrice di Soprintendenza sottolineò al suo soprintendente la rilevanza di quell’iniziativa, suggerendogli di organizzare con lo stesso Urbani un dibattito su quel decisivo tema di tutela, il soprintendente (oggi uno dei più accesi sostenitori dell’art. 9 della Costituzione) rispose toccandosi le palle e urlando scongiuri. È questa la forma di prevenzione dal rischio sismico che ha sempre vinto nelle alte stanze ministeriali, come dimostra il fatto che siamo sempre al punto di partenza con le centinaia di morti e la cancellazione per sempre di irripetibili e preziosissimi patrimoni storici e artisti. Ieri Assisi, San Giuliano, L’Aquila, Modena e tanti altri. Oggi Amatrice.

A questo punto sta a noi cittadini decidere: 

a. se la mancata tutela del nostro patrimonio artistico sia responsabilità del destino cinico e baro,

b. ovvero se sia responsabilità di persone, avvenimenti, scelte culturali e decisioni politiche che hanno nome, cognome e data,

c. nell’ultimo caso se, conoscendo di chi sono le reponsabilità, chiedere conto di tutto ciò alla politica e pretendere da questa una radicale riforma organizzativa del Mibact. 

 

1. Termini del problema 

a. I comuni in Italia, sono circa 8.100, senza contare le loro frazioni. Ognuno di questi (frazioni comprese, quindi il numero è molto più alto) ha un proprio centro storico in cui è difficile, se non impossibile, distinguere tra tessuto connettivo «maggiore» o «minore», quindi un tessuto abitativo tutto da conservare.

b. I musei italiani (nazionali, comunali, diocesani ecc.) sono circa 4.600 e in ognuno di loro sono conservate molte centinaia, quando non molte migliaia, di opere.

c. Si calcola che circa 110mila siano in Italia gli speciali musei del territorio che sono le nostre chiese, sempre colme di opere d’arte.

d. Si calcola invece che circa 70mila siano gli altri speciali musei del territorio che sono le residenze storiche pubbliche e private, altrettanto colme di opere d’arte.

e. Si calcola che qualche migliaio siano i teatri storici, «pieni di genio fino al soffitto» come ha scritto Bruno Barilli.

f. I siti archeologici sono circa 6mila, ma il loro numero è molto maggiore visto che molti sono ancora sotterrati, quindi inconoscibili.

g. Impossibile è conoscere il numero esatto delle opere d’arte contenute i tutti questi centri storici, chiese, palazzi, musei ecc. perché ancora oggi manca un catalogo del patrimonio artistico.

h. Resta però un fatto: presumibilmente le opere da conservare sono svariati milioni.

 

2. L’inquadramento giuridico dell’azione di tutela 

a. Il corpo delle leggi di tutela del 1939, e in particolare la legge n. 1089, condiziona ancora oggi pesantemente l’azione di tutela. Tanto che il nuovo Codice del 2004 si ispira ancora molto alla 1089/39, come hanno scritto gli stessi suoi estensori in alcuni loro interventi a stampa.

b. Senza ricordare che la legge 1089/39 nasce sulla base della legge 364 del 1909, a sua volta riscrittura dell’informe prima legge di tutela dell’Italia unita, la n. 185/1902, cosiddetta Legge Nasi ispirata all’Editto del cardinal Pacca del 1820, variante del Chirografo di Pio VII Chiaramonti del 1807, 

c. Più semplicemente la permanenza ancora oggi in vigore (in seconda battuta, ma tant’è) della 1089, cioè d’una legge pensata per l’Italia del 1939 sull’onda d’un Editto pontifico del 1820, 

d. Tutto questo fa sì che in materia di restauro e conservazione oggi si possa ancora operare secondo la visione storicista e pienamente crociana del problema illustrata da Giulio Carlo Argan al convegno dei Soprintendenti del 1938 (88 anni fa),

e. vale a dire la visione secondo la quale il restauro coincide con una «indagine filologica» condotta nella materia viva dell’opera per restituirla a «una lettura chiara e storicamente esatta»,

f. indicazioni di Argan del 1938 prive d’un qualsiasi accenno al problema conservativo, a cui Cesare Brandi darà (dalla direzione dell’Icr) valenza estetica tra il 1942 e il 1953, pubblicando poi la Teoria del restauro nel 1963.

 

3. L’irruzione del tema ambientale nella tutela

a. Vedere nel restauro un problema solo critico ed estetico poteva avere un senso nell’arcaica e intatta Italia degli anni Trenta in cui venne elaborata la legge 1089/39, anni in cui il patrimonio artistico era nei fatti «autoconservato» dal punto di vista ambientale grazie al fatto che il Paese era ancora capillarmente abitato. 

b. Ciò assicurava un puntuale controllo

• delle città (che ancora in gran parte coincidevano con i loro centri storici), tramite la costante manutenzione degli edifici (monumentali e non) legata alla tradizione di arti e mestieri che nel nostro Paese sembrava non dovesse mai esaurirsi, e 

• del territorio, tramite l’allora onnipresente lavoro agricolo di cui erano parte integrante il controllo e la tenuta (gratuiti, perché parte di quello stesso lavoro agricolo) del sottobosco, come delle rive di fiumi, torrenti e fossi, nonché degli inizi di frane e quant’altro. 

c. Mutate però nel secondo dopoguerra le condizioni socioeconomiche del Paese con gli effetti a tutti noti, anche in Italia insorge una questione ambientale, quella che produce la sua prima grande catastrofe con gravi effetti sul patrimonio artistico, l’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966. 

d. Un evento che, col suo aver investito un’intera città, dimostra come a essere in una condizione di rischio non erano più le singole opere d’arte ma il patrimonio artistico nella sua totalità;

e. né val la pena aggiungere che, se oggi piovesse tanto quanto piovve il 4 novembre 1966, Firenze andrebbe ancora sott’acqua perché poco o nulla è stato fatto alla bisogna, come giulivamente hanno scritto i giornali italiani nel quarantennale degli «angeli del fango».

 

4. Il patrimonio artistico come totalità

a. La conservazione del patrimonio artistico nella sua totalità (questa la lezione di Firenze) avrebbe dovuto imporre una radicale riforma dell’azione di tutela.

b. La riforma della tutela avrebbe dovuto basarsi su una ricerca scientifica tesa a elaborare una «tecnica» (Heidegger) efficace sulla totalità del patrimonio artistico. 

c. Tale tecnica avrebbe dovuto superare il restauro critico-estetico di Argan e Brandi, 

d. non però abolendolo, bensì storicizzandolo, per così incentrare la propria azione sulla prevenzione dai rischi ambientali.

e. L’unica tecnica possibile era la conservazione preventiva in rapporto all’ambiente in grado di riferirsi al patrimonio artistico nella sua totalità.

f. Tali obiettivi avrebbero imposto:

• un vero lavoro di ricerca scientifica, visto che è sul piano della totalità che sempre le scienze ragionano;

• una riformulazione delle competenze del comparto di tutela (soprintendenti, esperti scientifici e restauratori);

• il tradurre in azione tecnica e organizzativa una nuova politica di tutela in rapporto all’ambiente;

• il promulgare una nuova legge di tutela che desse base formale a quella nuova politica di tutela. 

g. Né mai dimenticando che una tecnica che ragiona sulla totalità già esiste ed è la conservazione preventiva e programmata del patrimonio in rapporto all’ambiente,

h. tecnica definita agli inizi degli anni Settanta del Novecento (quasi mezzo secolo fa) in modo puntuale sul piano del pensiero (il rapporto tra uomo e natura) e su quello della ricerca nel campo tecnico-scientifico, senza che nessuno al Ministero se ne sia accorto.

i. L’obiettivo di questo modo di vedere l’azione di tutela non era quello di realizzare ritocchi sempre «più belli» di singole opere, come ancora ritiene sia compito del Mibact la gran parte dei soprintendenti e dei professori che i soprintendenti formano,

j. ma di fare in modo che la totalità delle opere d’arte abbia sempre meno bisogno di ritocchi.  

 

Esiti

Nessuno da allora (dal 1966, quindi esattamente mezzo secolo fa) ha però spostato il problema conservativo dal restauro estetico delle singole opere alla conservazione programmata e preventiva del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente. 

In particolare non lo ha fatto Giovanni Spadolini, fondatore di quel Ministero dei Beni culturali che avrebbe potuto (e dovuto, in un qualsiasi moderno Paese civile) essere la vera soluzione del problema della tutela e che invece ne è divenuto il definitivo carnefice perché «nato morto», come subito, cioè nell’anno stesso della sua nascita (il 1975), constatò e scrisse Sabino Cassese. 

Cassese, con Massimo Severo Giannini, voleva la costituzione di un’Agenzia e non di un Ministero temendo quel che si è immediatamente verificato, cioè la vittoria dei burocrati sui tecnici. 

Il Ministero è una scatola vuota. Il provvedimento della sua costituzione non indica una politica nuova, non contiene una riforma della legislazione di tutela; consiste in un mero trasferimento di uffici da una struttura all’altra (dalla Direzione Generale Antichità e Belle arti in seno al Ministero della Pubblica Istruzione al Mibact). Non si vede perché uffici che non funzionano dovrebbero funzionare riuniti in un unico Ministero. 

 

5. Notifica  e restauro

Il Mibact (per Cassese «nato-morto») e i suoi circa 21mila dipendenti continuano imperterriti a lavorare per l’ambiente e per la conservazione materiale come se ancora si fosse nell’Italia autoritaria e fortemente centralizzata del re e del duce, quella delle leggi del 1939.

a. Per l’ambiente, agendo in forza di vincoli in negativo per la protezione delle «bellezze naturali», nell’idealistica ratio post-crociana della legge 1497/39, mai rendendosi conto

• che per giustificare l’atto della notifica non dovrebbe mai bastare (ex legge 1089/39) «l’interesse particolarmente importante» della cosa da notificare, 

• ma che dovrebbe invece contare molto di più che questa cosa possa essere posta in funzione di un ben preciso fine conservativo o valutativo, da conseguirsi in tempi e con modalità definiti caso per caso; 

• quindi sempre provvedendo a integrare la notifica, sia per i beni mobili che per quelli immobili, con una serie di disposizioni e di accorgimenti che invece di mummificare la cosa notificata, museificandola, la rendano partecipe, assieme ai beni di proprietà pubblica, di una unica e coerente strategia di tutela. 

• Si pensi in particolare ai beni immobili, per i quali la distinzione tra pubblico e privato diventa inessenziale se ci si decide a far valere quei beni come punti fissi per la messa a fuoco di un disegno di pianificazione urbanistica, territoriale o paesistica e di criteri per le «valutazioni di impatto ambientale».

b. Per la conservazione materiale facendola coincidere con il restauro critico estetico 1938-53 di Argan e Brandi, senza rendersi conto 

• che ogni restauro è comunque una manipolazione;

• che ogni restauro è un fattore di rischio di danno più o meno grave.

• che il rischio aumenta quando si continua a restaurare la stessa opera d’arte, come oggi sempre più spesso accade, in particolare per le opere che debbono andare in mostra, dunque spesso capolavori.

 

6. Il restauro oggi  

a. Da sempre le politiche di tutela vedono il patrimonio artistico come un’indistinta somma di singole opere,la cui conservazione coincide con il loro restauro critico-estetico secondo i dettami argano-brandiani del 1948-53.

b. La conseguenza di questo modo d’intendere la tutela è che la necessità di restaurare un’opera viene valutata sulla base dell’illeggibilità critica o meno dell’opera. 

c. Quindi quali siano le opere da restaurare e quali no è una decisione basata su un giudizio estetico, in sostanza «a occhio», perciò in modo del tutto soggettivo e casuale.

d. Ciò per l’irritualità di direzioni lavori condotte ex lege 

• da figure mai preparate alla bisogna,

• che non hanno mai concretamente eseguito un restauro con le loro mani e che di conseguenza hanno una nozione inevitabilmente imprecisa e occasionale dei problemi materiali che le operazioni di restauro mano a mano pongono,

• arrivate in quel ruolo superando un esame di storia dell’arte con qualche domanda su alcune nozioni giuridiche.

e. La priorità del giudizio critico-estetico su quello conservativo è dovuta al fatto che soprintendenti, professori (che i soprintendenti formano, da non dimenticare!), giornalisti, cultori della materia ecc. ritengono che l’attività di conservazione del patrimonio artistico italiano avrà fine quando tutte le opere saranno restaurate una per una, restituendole così tutte all’originaria «lectio recta» critico-estetica. 

f. È superfluo sottolineare come questa sia un’impresa imperseguibile, pericolosa e aleatoria.

• Imperseguibile perché smisurata.

• Pericolosa perché ogni restauro è una manipolazione dell’opera di partenza, con tutto ciò che questo comporta circa il possesso (o meno) delle necessarie abilità manuali e delle altrettanto e ancor più necessarie conoscenze tecnico-scientifiche rispetto al tema conservativo.

• Inoltre ogni aggiunta di nuovi materiali rende ancora più disomogeneo il complesso di materiali e strutture che costituiscono un’opera d’arte

• ed è nota verità scientifica secondo la quale tanto più un’opera è eterogenea, quanto più ardua ne diviene la conservazione.

• Aleatoria perché negli stessi numerosi decenni che passeranno prima della conclusione dell’impresa cambieranno anche le mode delle restituzioni estetiche (opere più pulite, con più lacune chiuse, con integrazioni non più a tratti verticali, ma a tratti incrociati, a pallini, e altre simili «passamanerie»). 

• Inutile perché quando un’opera sia stata già rivelata criticamente, ogni nuovo restauro è un mero aggiornamento dell’opera al gusto del momento del restauro,

• così smentendo nei fatti la pretesa «scientificità» critica dei restauri «argano-brandiani»

• e dimenticando che la storia dell’arte italiana ha segnato i suoi maggiori progressi tra fine Ottocento e primo Novecento con Cavalcaselle, Adolfo Venturi, Toesca, Longhi ecc, 

• cioè quando le opere d’arte erano poco o per niente leggibili criticamente perché annerite da fumi di candele, alterazioni delle vernici ecc,

• inoltre spesso completamente ridipinte alla meno peggio da pittori-restauratori. 

g. Tutte queste mie affermazioni sono state anticipate nel 1960, oltre mezzo secolo fa, ma senza alcun seguito, da Edgar Wind che scrisse:

«In quest’epoca di ricerche intensive nel campo della storia dell’arte, che sempre più tendono a coincidere con i risultati ottenuti nel campo della storia della scienza, è sorprendente che alcuni direttori di museo non riescano ancora a capire che dopo un certo tempo il trattamento «scientifico» di un dipinto sarà perfettamente databile. Lo stile di una pulitura si riconoscerà con la stessa facilità con cui si riconosceva quello di una ridipintura; perché nessuno può saltare sulla propria ombra storica». 

 

7. La manutenzione

Nonostante la piana evidenza di quanto scritto da Wind già una sessantina d’anni orsono, è divenuta pratica universale restaurare di nuovo opere già restaurate anche solo dieci, venti anni fa in aderenza al variare delle mode del restauro estetico, senza che nessuno si sia mai reso conto che il restauro critico-estetico ha la funzione di riportare alla «lectio recta» l’opera su cui s’interviene 

a. Il che significa, come appena detto, che, dopo un restauro che ha riportato l’opera alla «lectio recta» critica, l’opera non ha più bisogno di altri restauri, passando invece ad aver bisogno di una costante azione di manutenzione scientificamente fondata.

• Tale manutenzione non consiste solo nello spolverare gli affreschi una volta all’anno, come soprintendenti e professori in genere ritengono, a conferma dell’immenso ritardo culturale del settore,

• bensì deriva da un lavoro di ricerca che abbia reso misurabili i fattori di deterioramento dei manufatti restaurati, in modo che, sulla base di dati quantitativi e non solo qualitativi (il giudizio «a occhio»), nonché sulla base delle cognizioni ricavabili da specifiche discipline scientifiche, sia possibile la previsione (quindi, il rallentamento) delle dinamiche evolutive dei processi di degrado delle strutture e dei loro materiali costitutivi;

• Ovviamente a meno non insorgano nuovi, gravi e accertati problemi conservativi.

 

8. Obiettivi di tutela

Si tratta a questo punto di decidere:

a. se l’azione di tutela debba continuare a essere intesa come puntuale restauro estetico di una somma di singole opere; 

• che è poi la ratio dell’attuale inefficace, se non inutile e dannosa, azione di tutela.

• tanto da poter vedere nella attività di tutela del Mibact l’opera di un’immensa impresa di pulizie industriali tipo «La Fulgida», «La Nuova Aurora», «Doremifasol» e simili. 

b. Ovvero se organizzare una coerente, razionale, puntuale e scientificamente fondata azione di conservazione programmata e preventiva del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente, 

• finalmente assumendo come questo sia l’unico modo per poter incidere sulla totalità del patrimonio nella totalità dell’ambiente.

• Un’azione perciò da condurre in stretta unità con Enti locali, Province e Regioni, così come con la Chiesa e i privati proprietari, quindi Fai, Dimore storiche ecc.;

• ovviamente lasciando allo Stato (tramite i suoi Istituti centrali e le Soprintendenze territoriali, tuttavia non quelli in essere, ma altri preparati alla bisogna e diretti da persone di accertata competenza di specie) il ruolo di luogo della formulazione, coordinamento e controllo dell’azione di tutela in rapporto all’ambiente,

• quindi operando un radicale incremento delle competenze e dell’efficienza di tutti gli attori della tutela, statali, regionali, comunali, ecclesiastici e privati.

• il che impone per tutti loro una diversa e specifica formazione di base.

 

Considerazioni a latere

9. I limiti della formazione universitaria dei restauratori

Da diretto testimone dei corsi di formazione per restauratori recentemente accesi nelle Università (corsi da me stesso fondati a Urbino, anno accademico 2001-02) e nelle Accademie d’arte, credo quei corsi già oggi mostrino di poter essere in prospettiva un ulteriore e decisivo fattore di crisi del settore. In particolare l’ennesima fabbrica di disoccupati, quindi l’ennesima truffa giocata sulla pelle degli allievi di questi corsi, come già è accaduto per i corsi di laurea in beni culturali.

Basti dire che nelle sole due sedute di tesi in restauro cui ho assistito negli ultimi anni: 

• una tesi era di storia del restauro architettonico per un corso di laurea in tele e tavole e la Commissione non ha trovato nulla da eccepire al riguardo;

• l’altra riguardava uno dei grandi capolavori della pittura italiana del Quattrocento: la candidata, alla domanda di un rappresentante della commissione membro dell’Iscr, dimostrò di non sapere che quell’opera era stata al centro della elaborazione del concetto di patina nella Teoria di Brandi. 

Non lo sapeva lei, ma prima di lei non lo sapeva il relatore, che evidentemente nulla le aveva detto in proposito,

Né altrettanto evidentemente lo sapeva la Commissione, che nulla ha rilevato sul punto.

• Nonostante questo i due candidati sono stati laureati, uno con 110 e lode, l’altro con 108.

 

Esiti

Quanto detto sopra certo non offre garanzia della preparazione universitaria dei restauratori. Del resto, le scuole annesse all’Iscr e all’Opd hanno impiegato decenni per divenire i luoghi di alta formazione riconosciuti nel mondo come tali, giovandosi alla bisogna di cospicui finanziamenti e avendo a diretta disposizione importanti laboratori di analisi e con essi una lunga serie di restauratori e di esperti scientifici interni all’istituzione. 

Tutto ciò rende ancora più farsesco che i titoli di studio Iscr e Opd non siano equiparati a un titolo di laurea, come oggi è: il secondo è superiore al primo. 

 

10. Il problema dell’art. 182 del Codice del 2004

a. Le linee guida dell’art. 182 del Codice dei beni culturali del 2004 (d.l. 24 del 22 gennaio) sono state da allora variamente modificate, fino alla loro emanazione definitiva con Dm 13 maggio 2014.

b. Linee guida, quelle definitive, a dir poco confuse, che nonostante ciò hanno determinato un sostanziale cambiamento dei requisiti utili a selezionare la figura del «Restauratore di beni culturali», da come originariamente previsto nel Codice, 

c. ponendoli in regime di autodichiarazione e delegando la verifica delle autodichiarazioni alla documentazione esistente presso la stazione appaltante (Soprintendenze, Comuni, Regioni, Curie, privati proprietari ecc.).

d. Dove essendo piana verità che in quelle documentazioni quasi mai, se non direttamente mai, compaiono i nomi degli operatori materialmente attivi sulle opere,

e. bensì compaiono i nomi dei direttori di cantiere, in genere ingegneri, laureati in conservazione dei beni culturali, archeologi, storici dell’arte, geometri, ragionieri architetti e simili,

f. non è improbabile che quegli architetti, laureati in conservazione dei beni culturali e quant’altre figure con competenze di vario genere, ma non specialmente di restauro, quando abbiano rivestito il ruolo di direttori tecnici in imprese edili iscritte alla categoria OS2 da almeno otto anni, 

g. non è improbabile che quei geometri e simili, perché in possesso di certificati temporalmente adeguati, possano senza alcun problema essere qualificati ex lege come restauratori di tele, tavole, affreschi, sculture policrome e quant’altra opera su cui l’impresa in possesso della OS2 abbia lavorato, scegliendo tra la «categoria prevalente»,

h. senza nemmeno poter escludere che, le solite imprese con iscrizione alla OS2, per i loro dipendenti in guisa di imbianchini, muratori, fabbri ecc., firmino dichiarazioni che questi hanno lavorato su tele, tavole ecc., dotandosi in tal modo (issofatto ed ex lege) di restauratori nelle varie specie merceologiche inerenti la produzione artistica.

i. Mentre nella precedente disciplina transitoria, compariva almeno l’obbligo per il datore di lavoro di assumersi con atto notorio, quindi in via giuridica (con i risvolti penali e civili annessi), la responsabilità di affermare e confermare le esperienze dirette e certe del candidato. 

 

Esiti

Premesso che, ribadisco, all’orizzonte del Codice degli appalti dei lavori di restauro che qui siamo chiamati a definire c’è la sopravvivenza fisica del più importante patrimonio storico e artistico dell’Occidente, quello dell’Italia e degli italiani, premesso questo:

a. la per molti versi scandalosa vicenda dell’art. 182, non solo attesta un’altra volta l’immensa confusione e l’altrettanto immenso ritardo culturale in cui vive il mondo del restauro oggi in Italia, 

b. ma anche appare una variante al ribasso del problema della formazione dei restauratori, che già molto zoppica per la formazione universitaria,

c. confermando in tal modo l’assoluto disinteresse del Mibact verso una professionalizzazione del settore del restauro in Italia;

d. disinteresse che inevitabilmente si riflette sulle stazioni appaltanti;

e. e che anzi per molti versi da loro parte.

Ciò detto, credo si possa concordare sull’enorme difficoltà di venire a capo d’una situazione del genere, cioè in sostanziale assenza di punti di riferimento tecnico-scientifici istituzionali diversi da quelli burocratici ex lege 1089/39, come recepita dal nuovo Codice del 2004.

 

Bruno Zanardi è Professore associato di Teoria e Storia del restauro presso l’Università Carlo Bo di Urbino

Bruno Zanardi, 15 settembre 2016 | © Riproduzione riservata

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