Il problema della firma d’artista: il caso Fontana

I giudici milanesi non riconoscono il valore di firme o diciture autografe sulle opere

Un esempio di dedica e firma di Lucio Fontana
Giuseppe Melzi e Filippo Arnold Ristuccia |

Lucio Fontana sul retro delle sue tele o lastre con «tagli» e «buchi», oltre alla propria firma, scriveva titoli, aforismi paradossali di stati d’animo passeggeri, ricordi o riflessioni, talvolta di difficile comprensione e stravaganti, parole o frasi manoscritte come per esempio «Aspetto il giardiniere dell’anima...». In tal modo Fontana introduceva elementi grafologici di difficile contraffazione, diversamente dall’essenziale semplicità del suo gesto sulle superfici spesso monocromatiche, per cui un eventuale accertamento grafologico avrebbe facilitato riconoscerne la mano.

Due decisioni dei giudici milanesi invece escludono perizie grafologiche e risultati chimico stratigrafici sulla datazione. Due dinieghi di archiviazione da parte della Fondazione Fontana sono stati convalidati grazie a queste eccezioni processuali che hanno precluso l’esame dell’autenticità delle parole sottoscritte e dei titoli e di conseguenza l’autenticazione delle opere stesse.

La prima decisione riguarda un’opera dal titolo «Che bel vento di marzo» («due tagli rossi») che era stata dichiarata autentica da una perizia grafologica disposta d’ufficio dal Tribunale di Milano (sent. nr. 7402/2019) che aveva accertato l’autografia della firma e della dicitura. La Corte d’Appello di Milano invece ha ribaltato l’esito (sentenza 1238/2021) non tanto sul merito dell’autenticità, ma opponendo che il proprietario non avrebbe avuto interesse ad agire in sede giudiziaria (art. 100 cpc) non avendo fornito la prova del danno da lui subito per l’archiviazione negata dalla Fondazione. Questa sconcertante affermazione non solo nega la tutela della proprietà privata (art. 42 Costituzione), ma pregiudica il valore e la negoziabilità dell’opera e produce un danno irreparabile, rimanendo ignoto siffatto anomalo presupposto dell’azione giudiziaria.

La seconda decisione riguarda un’opera di un noto gallerista, storico amico e sostenitore di Fontana, proprietario di due altre opere («quattro tagli gialli» e «tre tagli bianchi»), riconosciute autentiche dalla Fondazione. Di fronte al diniego dell’autenticità di una sua terza opera («tre tagli bianchi»), il proprietario per risparmiare tempi e costi ha proposto un Atp, cioè un Accertamento Tecnico Preventivo (procedimento previsto dall’art. 696 bis c.p.c.) per accertare la firma e la dedica apposte sul retro dell’opera, nonché la datazione della materia pittorica (pigmenti), e ha presentato una qualificata perizia grafologica e una perizia chimico stratigrafica dei pigmenti, oltre a documentare la provenienza indiscutibile dell’opera.

Con ordinanza del 23 luglio 2021, il giudice milanese ha ritenuto inapplicabile tale procedimento e ha rimandato la valutazione a un processo ordinario (defatigante e costoso) perché «il fatto che la parte ricorrente chieda lo svolgimento di un’attività di natura tecnica (perizia grafologica) non pare poter sostenere in maniera idonea il ricorso allo strumento processuale oggetto del procedimento. Invero l’accertamento tecnico preventivo di cui all’art. 696 bis cpc appare rivolto all’accertamento e alla determinazione di crediti derivanti dalla mancata esecuzione di obbligazioni contrattuali e da fatto illecito».

La prassi forense riconosce che il procedimento di istruzione preventiva (Atp) possa accertare l’originalità della firma di un contratto o di un assegno evitando in tal modo le lungaggini della causa di merito e predisponendo la possibilità di una definizione conciliativa. Escludere l’accertamento dell’autenticità della grafia su un’opera d’arte che la Fondazione aveva dichiarata non autentica, ne rende impossibile la commercializzazione e arreca un grave danno economico al collezionista. Perché non legittimare il ricorso grafologico come avviene per le firme di un contratto o di un assegno?

Lo stesso giudice incomprensibilmente ha ribadito che «l’attività di valutazione richiesta alla Fondazione Fontana non sembra poter soggiacere a specifici vincoli che possano orientare in un senso o nell’altro il giudizio sull’autenticità dell’opera, rimanendo esso nell’alveo della libertà di apprezzamento dell’esperto». In parole più semplici, il parere negativo della Fondazione su un’opera d’arte è «insindacabile e incoercibile» per il principio della libertà di pensiero e di opinione (art. 21 della Costituzione).

Significa che in nome della libertà di opinione si possono esprimere giudizi conflittuali con i legittimi interessi dei collezionisti di opere d’arte? Ci domandiamo quale sarà allora la decisione dei giudici in un terzo caso che deve ancora andare a giudizio. Fontana aveva donato due piccole opere alla figlia di un noto collezionista in aspettativa di due gemelli: una ceramica e una tela («Concetto spaziale bianco») con la dedica «Alla signora Luisa» manoscritta sul retro.

A distanza di decenni la Fondazione ha riconosciuto all’attuale proprietario, un noto gallerista, l’autenticità della ceramica e l’ha invece negata alla tela presentata personalmente dalla proprietaria stessa non più giovane che l’aveva ricevuta da Fontana. «Fontana non ha mai regalato opere a nessuno» è stata la motivazione verbale del rigetto, nonostante l’opera fosse già stata ritenuta ineccepibile anche dalla restauratrice di fiducia della Fondazione.
Chissà quante altre signore beneficiate dal generoso Maestro stanno ridendo o sussultando nella tomba per questa troppo perentoria affermazione.

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