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Il piccolo grande mondo di Disfarmer

Chiara Coronelli

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Nato da una famiglia immigrata dalla Germania, Disfarmer, al secolo Mike Meyer (1884-1959), arriva a Heber Springs in Arkansas nel 1914. Qui, dopo aver aperto uno studio fotografico con George Penrose, si mette in proprio e cambia nome. La scoperta postuma del lavoro del ritrattista americano si deve a un ingegnere dell’esercito che dopo la morte di Disfarmer acquista il suo studio conservandone gli oltre 3mila negativi su vetro. Questi vengono poi acquisiti dall’editore Peter Miller che dà il via a una ricerca con Julia Scully.

Ne nascono un volume, «indispensabile» secondo Avedon, e una mostra all’Icp di New York nel 1977, per i quali le stampe esposte sono tirate dalle lastre originali perché, all’epoca, le vintage si trovavano ancora negli album di famiglia degli abitanti di Heber Springs e della contea di Cleburne, i clienti che Disfarmer aveva fotografato per quarant’anni a partire dal 1915.

Nel 2005 l’opera vintage viene finalmente riunita nella collezione di Michael Mattis e Judith Hochberg, ed esposta quell’anno per la prima volta. «Nonostante l’esistenza da eremita trascorsa da vero outsider, come scrive Mattis, l’autore è testimone della vita sociale e familiare di un’intera collettività», quella che vediamo scorrere nelle 182 immagini esposte in «Disfarmer. The Vintage Prints», rassegna che il Foam gli dedica fino al 5 giugno.

La mostra ci riconsegna uno sguardo diretto, per molti versi vicino a quello di August Sander e Diane Arbus, che ritaglia da fondali neutri l’evidenza scarna e limpida di agricoltori, scolari, casalinghe, militari e interi gruppi che arrivavano vestiti come volevano e si mettevano in posa da soli fissando l’obiettivo: «Non c’erano grandi saluti quando entravi. Invece di chiederti di sorridere scattava la foto. Né "cheese" né nient’altro».

Chiara Coronelli, 16 settembre 2016 | © Riproduzione riservata

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Il piccolo grande mondo di Disfarmer | Chiara Coronelli

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