Il Padiglione Italia è un viaggio al termine della Notte

Il curatore Eugenio Viola ha voluto un solo artista per ripercorrere l’ascesa e la caduta del miracolo industriale italiano, due atti immersivi seguiti dal «ribaltamento del pessimismo di Pasolini in una visione positiva». «Credo che in questi tempi incerti l’ottimismo debba essere una necessità etica, quasi un obbligo»

Eugenio Viola. Foto CAMO (Camilo Delgado Aguilera)
Franco Fanelli |

Per la prima volta il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, intitolato «Storia della notte e destino delle comete», ospiterà un solo artista, Gian Maria Tosatti. Lo ha voluto il curatore, Eugenio Viola, forte di una decennale esperienza professionale con l’artista suo conterraneo. Nato a Napoli nel 1975, Viola è curatore in capo del Museo de arte moderno di Bogotà (Mambo) in Colombia, dove vive. Dal 2013 al 2016 ha lavorato come curatore al Museo Madre di Napoli. Ha esperienze internazionali (è stato anche senior curator al Pica, Perth Institute of Contemporary Arts) con mostre dedicate, fra le altre, a Orlan, Regina José Galindo, Marina Abramovic. Quello alla Biennale di Venezia è un ritorno: nel 2015 ha curato il Padiglione Estonia.

Eugenio Viola, vorrei iniziare con due temi puramente tecnici. Il primo riguarda la differenza che intercorre tra il commissario e il curatore del Padiglione Italia.
Il commissario, in questo caso Onofrio Cutaia, è il punto di contatto tra il curatore del Padiglione e la Direzione Generale Creatività Contemporanea, cioè l’organo del Ministero della Cultura preposto all’organizzazione del padiglione stesso. Io, tramite il commissario, sono stato invitato a presentare una proposta insieme a nove colleghi.

Il secondo tema è il budget a vostra disposizione.
Abbiamo due main sponsor che sono la Maison Valentino e San Lorenzo Yacht, poi Xiaomi che è sponsor, una serie di sponsor tecnici e il sostegno di numerosi donor privati.

In cifre?
Un milione e quattrocentomila euro per la produzione. Questo non include il finanziamento che stanzia lo Stato italiano: 400mila euro più 200mila euro per le spese amministrative e per coprire una serie di «fee», ma non per coprire la produzione del padiglione stesso.

Perché avere un padiglione nazionale con un solo artista è considerato cool e averne più di uno è cheap?
Non è che avere più artisti è cheap. Avere un solo artista significa semplicemente presentarsi con una visione univoca e «secca», così come sono abituate da tempo a presentarsi le altre Nazioni. È un voler equiparare la partecipazione italiana alle altre. Allo schema trinitario dei miei ultimi predecessori, Cecilia Alemani e Milovan Farronato, ho così sostituito un artista che è uno e trino, Gian Maria Tosatti (oltre che artista è curatore e critico, Ndr).

La sua descrizione del Padiglione Italia in sede di conferenza stampa somigliava al programma della messa in scena di uno spettacolo teatrale d’inizio ’900, di quelli imperniati sulla narrazione e sull’evocazione di eventi sociali e politici immancabilmente destinati a un epilogo trionfale. Non teme il rischio di un’allegorizzazione sin troppo didascalica?
No, perché l’arte conserva questo potere irriducibilmente metaforico e allegorico e ne abbiamo assolutamente bisogno, in questo momento più che mai. Quando si è svolto l’ultimo incontro con gli altri curatori dei padiglioni nazionali io dichiaravo che la storia della notte oggi purtroppo si presta anche a descrivere questo sonno della ragione che continua a generare mostri, riferendomi ovviamente a quanto sta succedendo in Europa. La grammatica teatrale è quasi consustanziale al modus operandi di Gian Maria Tosatti. Può sembrare un’impresa titanica, non priva di hybris prometeica, assegnare a un unico artista uno spazio di quasi 2mila metri quadrati, però Tosatti è un artista che ha una grande padronanza degli spazi.

Io con lui avevo già lavorato al progetto triennale «Sette stagioni dello spirito», a Napoli dal 2013 a 2016, la cui mostra finale fu la mia ultima da curatore al museo Madre. Una delle più visionarie di queste tappe, che per certi versi ricorda il padiglione che s’intitolava «Lucifero», si sviluppava su uno spazio tre volte più grande del Padiglione Italia. Ovviamente c’è stata un’inversione metodologica rispetto al suo modus operandi solito perché Tosatti solitamente rifunzionalizza, risemantizza gli spazi attraverso interventi minimi, mentre nel caso del padiglione, che è un contenitore vuoto e vincolato come bene culturale e in quanto tale inviolabile, abbiamo dovuto realizzare un guscio autoportante all’interno degli spazi per costruire questo racconto ed è anche per questo che la produzione è stata così imponente. Abbiamo iniziato l’allestimento il 31 di gennaio con l’obiettivo di finirlo per fine marzo.

Si parla di esperienza immersiva a proposito del Padiglione Italia 2022. Che cosa succede al visitatore che vi si avventura?
Il visitatore diviene un performer involontario. Io in passato scrissi dell’irriducibile pulsione performativa dei meccanismi di Gian Maria Tosatti perché la sua non è soltanto scenografia, ma ci sono elementi che provengono dalla tradizione dell’environnement. Si dice che io sia uno studioso e un curatore delle poetiche performative e della task performance perché il visitatore è chiamato a compiere un viaggio esperienziale all’interno di una macchina sensibile. Per cui c’è una partecipazione attiva dello spettatore. Ma ogni esperienza è irripetibile e quindi unica, anche perché spesso (non sarà il caso del nostro padiglione) i dispositivi intermediali (definisco così i lavori di Gian Maria oltre il mero concetto di installazione ambientale) sono concepiti per essere esperiti da un visitatore alla volta: ci sono tutti questi stimoli eterogenei che sfidano la sintesi delle arti cara all’ideale avanguardistico e che si confrontano con una serie di esperienze internazionali di artisti che hanno ridefinito, a cavallo dei due millenni, ambiti e territori dell’installazione ambientale, da Gregor Schneider a Mike Nelson. Però il lavoro di Tosatti in questo senso è un unicum proprio per questo suo rapporto stringente con la tradizione del teatro.

Che cosa risponde a chi le fa rilevare che gli «Ambienti Spaziali» di Lucio Fontana sessant’anni fa chiedevano al visitatore lo stesso tipo di partecipazione?
Che quella offerta da Tosatti è un’esperienza più immersiva e diversamente straniante rispetto agli ambienti di Lucio Fontana. È un’esperienza più totalizzante perché Tosatti ricostruisce delle ambientazioni che sono abbastanza neutre e però possono richiamare, per una serie di caratteristiche, esperienze legate al vissuto. Quindi per certi punti di vista può sembrare quasi un’esperienza psicoanalitica. A proposito del lavoro di Tosatti uso spesso la metafora dell’immagine come montaggio cara a Georges Didi-Huberman: le immagini prendono posizione.

Pier Paolo Pasolini, in questo viaggio al termine della notte della storia italiana, sarà uno degli «spiriti guida». Chi saranno gli altri?
In questo viaggio ci accompagna Ermanno Rea: alcuni ambienti ricordano La dismissione, probabilmente l’ultimo romanzo ascrivibile alla tradizione industriale che parte da Napoli, dalla dismissione dell’Ilva di Bagnoli. È un padiglione a trazione meridionale! Però da Napoli dà un segnale che abbraccia il Nord come il Sud. Ci sono echi del «Progresso scorsoio» caro ad Andrea Zanzotto. Nella conferenza stampa ho parlato di crescendo rossiniano introdotto da un prologo in sordina. Diciamo che attraversiamo l’ascesa e la caduta di quello che un tempo in termini entusiastici si chiamava il miracolo industriale italiano per parlare in realtà del rapporto tra l’uomo e l’ambiente circostante, e non potrebbe essere diversamente dato il nostro presente ancora metapandemico e, come direbbe Paul B. Preciado, farmacopornografico. Quindi ci sono degli echi di Gomorra di Saviano quando parla della Terra dei fuochi.

Su tutti Pier Paolo Pasolini, certo, non soltanto perché cade il centenario della sua nascita, ma perché è uno dei numi tutelari della ricerca di Tosatti. Parliamo principalmente dell’ultimo Pasolini, quello distopico e visionario. Anche in «Sette Stagioni dello Spirito» alcune stazioni erano direttamente ispirate a
Petrolio; l’incipit qui è stato l’articolo «Il vuoto di potere in Italia» che il «Corriere della Sera» pubblica il primo febbraio 1975 e che viene poi ripubblicato come «L’articolo delle lucciole». Questa è stata la nostra traccia sottile e io prima ho citato Didi-Huberman il quale ha ribaltato in chiave possibilista il «pessimismo parabolare» de «L’articolo delle lucciole» di Pasolini nel suo libro più politico, Come le lucciole, il cui sottotitolo, oggi assai attuale, è Una politica della sopravvivenza. Pasolini ci dà l’incipit per il secondo atto che non le racconto non soltanto per non rovinarle la sorpresa ma anche perché l’atto finale ribalta, come dicevo, il pessimismo di Pasolini in una visione eclatante, positiva e ottimista. Io credo che in questi tempi incerti l’ottimismo debba essere una necessità etica, quasi un obbligo.

Che cosa intende quando parla di «ambiente»?
Ambiente nell’accezione più ampia del termine, del rapporto tra l’uomo e l’ambiente circostante. Abbiamo iniziato a lavorare sul progetto del Padiglione Italia interrogandoci su quale fosse il ruolo dell’essere umano una volta che è stata messa fortemente in questione la sua centralità. Ambiente come ambientalismo, anche, perché gran parte dei problemi ambientali sono derivati da un rapporto criminale con l’ambiente circostante. Si utilizza il termine inglese «spillover», il salto di specie, per giustificare le epidemie più rovinose degli ultimi anni, da Ebola alla Sars all’Aids fino al Covid-19: sono derivate da un rapporto malsano con l’industrializzazione che ha reso sempre più il nostro pianeta, come direbbe Dante Alighieri, «guasto».

Fino a un po’ di tempo fa (oggi meno) era di moda criticare lo schema «geografico» per partecipazioni nazionali su cui è imperniata la Biennale. Oggi se ne parla meno, perché?
La Biennale risponde a quello che era lo schema delle antiche esposizioni internazionali, per cui sotto questo punto di vista ha una struttura che appartiene al passato, ma è diventata proprio questa la sua forza, questo ribadire le ragioni di un anacronismo che la rende ancora attuale e ne fanno la vera Biennale rispetto alle altre che sono nate dopo. È in questo suo anacronismo che si ritrova la forza e l’unicità della Biennale di Venezia: è l’approccio archeologico al presente, direbbe Giorgio Agamben, un concetto presente anche nel Padiglione Italia da me curato.

Come sarà strutturato il catalogo?
In controtendenza rispetto a tutte le altre volte, su questo catalogo abbiamo scritto soltanto io e Tosatti: un dialogo a due spinto alle estreme conseguenze, un dialogo a due edito da Treccani. Il mio testo parla della genesi di questo lavoro, di tutti i suoi riferimenti, della sua contestualizzazione all’interno del percorso artistico esistenziale di Tosatti; ci sarà una pagina del suo diario che inviò il giorno dopo quello in cui gli feci questa «proposta indecente», dove si evidenziavano in nuce gli argomenti che sarebbero stati toccati nel padiglione: l’«Ut pictura poësis», il progetto di Napoli accompagnato dal diario dell’artista che in un certo senso anticipava e mi giustificava le sue decisioni; ci sarà un dialogo tra me e lui riguardo alla sua poetica, all’unicità del suo lavoro e ad alcuni argomenti che sono trattati sia nel dialogo sia nel testo e che abbiamo in parte anticipato nel corso di questa intervista. Il catalogo sarà accompagnato da un omaggio a Mimmo Jodice. Abbiamo recuperato una serie di fotografie che ha realizzato all’inizio degli anni Settanta, la testimonianza precoce di denuncia e di ribaltamento di quella che è la cosiddetta tradizione della fotografia industriale. Ma per quanto riguarda i testi, è stata una scelta meditata da parte di entrambi, di Tosatti e mia, quella di essere solamente noi due con un’unica eccezione, il reprint del citato «L’articolo delle lucciole» di Pasolini.

Ci sono legami e connessioni tra il suo Padiglione Italia e la mostra centrale curata da Cecilia Alemani?
Sì, perché certe volte i temi sono nell’aria. Noi crediamo nel potere quasi taumaturgico dell’arte. Cecilia Alemani ha immaginato una Biennale che lavora sul potere di trasformazione dell’arte, che viaggia nei labirinti dell’immaginario cominciando dal titolo, «Il latte dei sogni», mutuato da un’artista da me molto amata, Leonora Carrington, che conobbi sempre attraverso il mio maestro Angelo Trimarco. Io vivo in Sudamerica, e qui Leonora Carrington, come Remedios Varo e Leonor Fini, presenti in questa Biennale, sono di casa. Anche alcuni elementi che Cecilia Alemani ha sviluppato all’interno delle sue «capsule», il rapporto con il corpo o il Post-Human sono tematiche a me molto vicine. Anche il mio dottorato di ricerca verteva su questi argomenti: ho lavorato molti anni con Orlan, e la mia tesi era sull’arte e le biotecnologie. Trovo che la mostra centrale di questa Biennale sia in continuità con il suo Padiglione Italia che Cecilia Alemani intitolò non a caso «Il mondo magico», a ribadire le ragioni di una coerenza di una ricerca.

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