Il nuovo saggio di Tim Carpenter

Un testo sulla fotografia scritto da un fotografo, che muove la propria riflessione a partire dalle domande relative all’esperienza della creazione artistica

Tim Carpenter con una copia del suo ultimo libro
Luca Fiore |

Scorrendo l’indice dei nomi, non si direbbe un libro di riflessioni sulla fotografia: Albert Camus, Bruce Springsteen, Flannery O’Connor, Paul Valéry, Simone Weil, Vincent Van Gogh, T.S. Eliot, Sufjan Stevens, Wallace Stevens… To Photograph Is To Learn How To Die. An Essay with Digressions (288 pp., Ice Plant, Los Angeles 2023, € 32,80) del fotografo americano Tim Carpenter (Illinois, 1968), è un saggio quanto meno fuori dagli schemi. Sia per la profondità delle domande che si pone, sia per la spregiudicatezza con cui dialoga con poeti, filosofi, scrittori e cantautori. E anche per l’approccio così lontano dai testi canonici della saggistica sul tema.

È un testo sulla fotografia scritto da un fotografo, che muove la propria riflessione a partire dall’esperienza della creazione artistica o, meglio, dalle domande da cui essa nasce e dalle domande che essa stessa genera. Va a finire, come spesso capita quando si parla di arte non in modo frivolo, che si vada a parare sui grandi interrogativi dell’esistenza. Perché, come diceva Giovanni Testori, l’arte è interessante quando è questione di vita o di morte. Nel dialogo con Carpenter abbiamo voluto restare a questo livello.

Da quale esigenza nasce un libro del genere?
Dicono che gli scrittori scrivono il libro che vorrebbero leggere. E nel mio caso è vero: è il libro che avrei voluto avere tra le mani quando avevo vent’anni. Ma, d’altra parte, questa esigenza fa parte dell’argomento stesso del libro: perché, o come, nasce il bisogno di scrivere qualcosa, di dipingere un quadro o di fare una fotografia? Perché realizzare qualcosa che non ha un’utilità oggettiva evidente? Per quanto mi riguarda, riesco a rispondere in modo più chiaro con la macchina fotografica: faccio fotografie per colmare, tentativamente, il divario tra ciò che ho in testa e ciò che c’è nel mondo. La fotografia per me è una necessità, mentre la scrittura, per quanto mi piaccia e mi appassioni molto, non è la stessa cosa. Può sembrare strano, ma la scrittura è più che altro un modo per dare forma e chiarezza al disordine che ho in testa, e forse il bisogno profondo è quello di liberarmi di un po’ di quella roba e andare avanti.

Qual è, in sintesi, il tema del saggio?
Noi esseri umani siamo sempre insoddisfatti perché il reale, il qui e ora, solo raramente coincide con l’ideale (le cose, i luoghi e i tempi che possiamo immaginare e desiderare). Alcune persone fanno arte per affrontare questo enigma. La fotografia è unica tra le arti perché è ineluttabilmente legata al qui e ora, proprio come i nostri corpi. In altre parole, è un mezzo di immanenza (credo sia l’unico) piuttosto che di trascendenza. Il lavoro con la macchina fotografica ci insegna necessariamente a incontrare il mondo così com’è, mortale e limitato, non come vorremmo che fosse. E a fare pace con questo.

Una particolarità del libro è che cita molti autori che non si occupano di fotografia: scrittori, poeti o filosofi. Che cosa dicono in più rispetto a coloro che hanno riflettuto finora sulla fotografia?
Innanzitutto dividerei gli scrittori di fotografia in quelli che hanno usato la macchina fotografica (tra quelli citati nel libro ci sono: Minor White, Wright Morris, Robert Adams e Stephen Shore) e quelli che non l’hanno usata (tra quelli intenzionalmente non citati ci sono Walter Benjamin, John Berger, Roland Barthes e Susan Sontag). Il primo gruppo è più interessato alla forma, come necessario per realizzare una fotografia, mentre il secondo è prevalentemente concentrato sui significati dell’argomento, come è naturale che sia in quanto commentatori. Il libro riflette il mio personale interesse e la mia preoccupazione per la forma, che è stata stimolata non solo dai fotografi che ho menzionato, ma anche da tutti gli altri pensatori citati nel testo. Ho scoperto che Nietzsche, Wallace Stevens e Marilynne Robinson (tra i tanti) sono molto più rilevanti per le domande che mi pongo sul modo in cui si dà forma alla propria esistenza, rispetto ai pensatori che si incontrano nelle raccolte di teoria della fotografia.

Qual è secondo lei l’errore più comune che si commette quando si parla di fotografia?
La natura meccanica del mezzo è tale che la maggior parte degli osservatori (a volte anche quelli più sofisticati) pensa alla fotografia come equivalente al suo soggetto. Così la maggior parte dei commenti riguarda i «significati» esprimibili a parole che si possono estrarre dalle fotografie, e l’affidabilità di tali significati, così come gli scopi funzionali a tali significati, e così via. Tutto questo non è di per sé un errore, ma credo che sia una visione terribilmente incompleta delle cose. Questo perché la fotografia è prima di tutto un’immagine (una cosa nuova nel mondo) con un autore la cui intelligenza è altrettanto evidente nell’opera quanto quella di qualsiasi pittore (o poeta o musicista). L’errore, a mio avviso, è quello di enfatizzare i significati linguistici/simbolici delle cose davanti all’obiettivo (ciò che è raffigurato nella fotografia) tralasciando di considerare da una parte la presenza dell’agente umano in carne e ossa dietro il mirino o il vetro smerigliato e, dall’altra, la natura muta della macchina che sta in mezzo.

Il titolo del libro potrebbe anche essere trasformato in «La fotografia è imparare a vivere». È la fotografia che ci insegna a vivere (o a morire) o è il contrario?
Sì, potrebbe essere espresso in questo modo, e certamente voglio ribadire le possibilità della vita. Ma sono comunque attratto dal modo in cui la macchina fotografica (unica tra i mezzi di comunicazione) ci costringe a trovare il modo di lavorare all’interno dei limiti del reale e del tempo. E la limitazione più profonda è ovviamente la nostra mortalità. Per me, è l’accettazione della morte come condizione ultima della vita che ci autorizza a sfruttare al meglio il tempo che abbiamo qui. Penso che la vita normale sia vissuta da molte persone in modo troppo timoroso e incerto, quindi forse è qualcosa di «non necessario» alla vita, come l’arte, lo sport o la scienza, che offre una prospettiva diversa e ci insegna a vivere.

Il libro ha avuto molto successo. Perché secondo lei?
Un aspetto è del tutto pratico: Tricia Gabriel e Mike Slack di The Ice Plant (l’editore) e Dap (il distributore) hanno fatto un lavoro straordinario per diffonderlo nel mondo. Sono fortunato a lavorare con loro. Per quanto riguarda il suo fascino, non sono ancora del tutto sicuro. Ho ricevuto numerose email e messaggi (alcuni piuttosto lunghi) in cui le persone dicono che il libro ha corroborato alcuni pensieri incoerenti che già avevano sul lavoro con la macchina fotografica. Alcuni dicono che li ha incoraggiati a fare di più e a spingere oltre le loro idee fotografiche. La risposta più inaspettata e sorprendente è arrivata da alcune persone che vivono con una malattia terminale e da altre che hanno recentemente perso i loro cari: tutti mi hanno detto che il libro ha portato conforto. Questo, naturalmente, ti fa sentire umile, ma è anche molto gratificante.

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