Il nostro sistema dell’arte? Una somma litigiosa di individualità

L’ultima, controversa, Documenta è per Marco Enrico Giacomelli il punto da cui partire per una riflessione su modelli plurali, collettivi, di pratica artistica

Marco Enrico Giacomelli
Olga Gambari |

Quando parliamo di arte, di che arte stiamo parlando? Marco Enrico Giacomelli (giornalista, docente alla Naba di Milano, cofondatore ed ex vicedirettore di «Artribune») pone la domanda ma non fornisce la risposta nel suo libro Ma dove sono le opere d’arte?, appena uscito per Castelvecchi (176 pp., € 18,50). È una domanda attraverso cui legge e interpreta, in un’analisi colta e chirurgica che segue la struttura di un glossario, tutto il mondo-sistema arte globale, o almeno quello che noi percepiamo come tale. Unica indicazione per la navigazione nella lettura del libro, escludere che la nostra idea di arte sia la visione complessiva dell’insieme. Per Giacomelli la questione è molto più ampia, un’immagine plurale e prismatica che gli ha regalato, come un’illuminazione, l’ultima edizione di Documenta 15 a Kassel, estate 2022, affidata al collettivo indonesiano ruangrupa.

Il suo libro è un reportage da Documenta ma anche una sorta di pamphlet, un bilancio personale e collettivo che legge il contemporaneo.
Mi sono reso conto della nostra visione monolitica, non possiamo più usare il singolare, ma dobbiamo parlare di mondi e sistemi dell’arte. La nostra è una percezione parziale, un’illusione ottica che pretende di essere egemonica. Pensiamo all’Art brut e alla Street art, per esempio, che non sono nicchie come ce la raccontiamo, ma fenomeni enormi e diffusi. La prima sorpresa a Documenta è stata quando ho letto l’elenco dei collettivi che ruangrupa aveva invitato: erano moltissimi, ne conoscevo appena il 5%, pur lavorando nell’ambiente da venticinque anni. Anche altri due dati sono stati un insegnamento: a Documenta c’era un’apertura geografica atipica per una manifestazione europea, che cambiava completamente il punto di vista, per esempio una folla di realtà del Sudest asiatico, e i soggetti coinvolti mettevano in pratica una vera militanza sul campo, che è diversa dall’impegno politico, dallo statement di molto nostro artivismo. L’aspetto che riassume tutto questo discorso del cambio di visione è che il curatore era un collettivo di Giakarta, la maggior parte degli artisti invitati erano anche loro dei collettivi, che avevano invitato altri collettivi ancora. Una rete enorme, da cui emergeva il fatto che, in parallelo a una Biennale di Venezia o di Berlino, esiste un modello molto diverso, nell’approccio, nelle storie raccontate, e che in molte aree del mondo sia normale fare arte più a livello collettivo che individuale.

In pratica, questo artivismo tanto di moda da noi, è una scoperta dell’acqua calda?
Esatto. Pensiamo anche al concetto del «lumbung», parola cardine per ruangrupa e Documenta, termine indonesiano che indica una pratica per cui il riso viene immagazzinato a beneficio della comunità a seconda dei bisogni. Una pratica antropologica di sopravvivenza diffusa da sempre dovunque, un basso continuo delle comunità intese non come somma di individui ma di collettivi. Il nostro sistema dell’arte, invece, è una somma litigiosa di individualità. Questa Documenta, al di là delle opere e delle attività, era una sorta di sveglia che suonava, e mi sembra che lo sia stata per molti, anche se tante sono state le reazioni di chiusura e fastidio, altro segnale del nostro arroccamento nella fase di declino dell’impero romano, quando non si capisce che all’esterno non ci sono i barbari ma la possibilità di continuare a crescere. Si tratta di comprendere che il nostro non è il, ma uno dei punti di vista.

Parlando dell’Italia, come specificherebbe questo arroccamento?
Un grosso problema naturalmente è il legame soffocante con la tradizione, che ci blocca nel riuscire ad avere uno sguardo nuovo nel vedere il mondo. Il sistema dell’arte mainstream è affetto da un forte classismo, con una struttura tradizionale che prevede le opere esposte in musei e gallerie e poco lavoro sull’arte pubblica. Così come poca è la riflessione in generale, e poca la curiosità, non ci si confronta e il livello della discussione è basso.

Nelle sue riflessioni lei cita pensieri e posizioni appartenenti a persone precise.
Dovrebbe essere normale, perché se il dibattito è vero e scientifico, si parte da idee e da nomi per poi controargomentare. Certo, parlo di Luca Beatrice, Angelo Crespi, Gabriele Simongini, per dire, che hanno posizioni tradizionaliste poco evolute, appartenenti a quel conservatorismo secolare che non condivido. Perché non lo facciamo? Perché non scriviamo più stroncature? È il solo modo per crescere, per uscire dal grande inner joke dentro cui viviamo.

Marco Scotini è un nome che ricorre nel libro e sembra incarnare una sorta di figura maestra.
È una figura che racchiude il profilo del critico, dello storico e del curatore tra le più interessanti in Italia e non solo. È l’unico curatore italiano di mostre importanti, capace di una scrittura curatoriale e anche di testi degni di questo nome. La sua è una posizione precisa, che difende e argomenta: c’è una coerenza nella sua storia che lo rende di altissimo livello. Mi piacerebbe vederlo dirigere una biennale.

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