IL MUSEO INFINITO | La Pinacoteca Vaticana

Storia, opere e luoghi dei Musei Vaticani, a cura di Arianna Antoniutti. Il Seicento

Caravaggio, «Deposizione nel sepolcro» (particolare), 1600-04, olio su tela, dalla chiesa di Santa Maria in Vallicella (Chiesa Nuova) a Roma. Pinacoteca Vaticana, inv. 40386 Domenichino, «Ultima comunione di San Gerolamo» (particolare), 1614, olio su tela, dalla chiesa di San Gerolamo della Carità a Roma. Pinacoteca Vaticana, inv. 40384 Guido Reni, «San Matteo e l’angelo» (particolare), 1635-40, olio su tela, dalla collezione Castellano. Pinacoteca Vaticana, inv. 40395 Guido Reni, «Crocifissione di San Pietro», 1604-05, olio su tela, dall’Abbazia di San Paolo alle Tre Fontane a Roma. Pinacoteca Vaticana, inv. 40387 Gian Lorenzo Bernini, «Angelo inginocchiato in adorazione», modello in terra cruda per l’angelo di destra nell’altare del S.S. Sacramento in San Pietro, creta e paglia su armatura in ferro e vimini, dalla Fabbrica di San Pietro in Vaticano. Pinacoteca Vaticana, inv. D6561
Guido Cornini |  | Città del Vaticano

Guido Cornini, storico dell’arte medievale e moderna, delegato scientifico della Direzione dei Musei Vaticani, ci accompagna tra le sale della Pinacoteca Vaticana.

La prossima sala, la XII, è quella che, con le altre dedicate a Giotto e a Raffaello, maggiormente attira i visitatori della Pinacoteca: e che gli altri musei del mondo, in certo modo, vi invidiano…
L’ambiente è una specie di «Sancta Sanctorum» della pittura secentesca, stipato com’è di opere che rappresentano il meglio di ciascun autore. Non a caso, la gran parte di esse fu portata a Parigi dai commissari francesi. Neppure New York, Londra, Dresda o Berlino possono vantare una selezione di tale livello. Passando con lo sguardo da un’opera all’altra, è possibile seguire lo sviluppo della pittura secentesca, dai suoi esordi bolognesi nel segno dell’accademia carraccesca, ai trascorsi caravaggeschi del Reni e del Guercino, fino all’enigmatica personalità del c.d. «Pensionante del Saraceni» (la definizione è di Roberto Longhi) e all’affermarsi di un naturalismo schiarito e di marca idealizzante, nella produzione centrale e poi in quella dell’estrema maturità dello stesso Reni.

La rassegna si apre con personalità emiliane come appunto Guido Reni (la sua «Crocifissione di San Pietro», per San Paolo alle Tre Fontane, è del 1604-05) e Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino (la «Maddalena penitente» per la chiesa delle Convertite al Corso, del 1622), francesi come Valentin de Boulogne (il «Martirio dei Ss. Processo e Martiniano», per l’omonimo altare in San Pietro, del 1629) e Nicolas Poussin (il «Martirio di Sant’Erasmo», per la medesima committenza, pure del 1629), e romane come Andrea Sacchi (la «Visione di San Romualdo», per la distrutta chiesa del Santo a Roma, del 1631).

Ma le autentiche «star» della sala sono la «Deposizione nel sepolcro» del Caravaggio, dalla cappella Vittrice nella chiesa di Santa Maria in Vallicella a Roma (1600-04) e l’«Ultima comunione di San Girolamo» del Domenichino, dalla chiesa di San Girolamo della Carità in via di Monserrato (firmato e datato «1614»): debitrice, la prima, nella postura esanime del Cristo, della «Pietà» michelangiolesca in San Pietro (l’iconografia adottata dal Merisi fonde intenzionalmente il tema della «Deposizione» con quello della «Pietà», cui la cappella era inizialmente dedicata); basata, la seconda, sull’omonima composizione di Agostino Carracci nella Certosa di Bologna, di cui ripete in controparte l’invenzione.

E se il dipinto caravaggesco si pone all’inizio di quella voga naturalistica che non risparmierà, nei decenni a venire, la stessa pittura sacra (ancora secoli dopo, Rubens, Fragonard, Géricault e Cézanne furono tra quelli che copiarono l’opera o ne trassero spunti per le proprie composizioni: mentre Jacques-Louis David, che pure ne aveva deplorato la confisca, se ne servì per la scenografia della sua «Morte di Marat»), la pala del Domenichino divenne il modello espressivo di quanti propendevano piuttosto per l’enucleazione poetica di quella teorica degli «affetti» di cui parlavano l’Agucchi e il Bellori.

Un’opera molto amata, anche da chi non ne decifra a tutta prima il significato, è anche il quadretto con «Matteo e l’angelo» di Guido Reni. Si tratta dello stesso soggetto – qui trattato con tono intimo e confidenziale – affrontato da Caravaggio in San Luigi dei Francesi. C’è un che di tenero nella piccola composizione, perché l’angelo ha le apparenze di un bambino che insegna a scrivere all’anziano analfabeta che, nella sua veneranda canizie, ha l’umiltà di ascoltare.

Abbiamo poi, al centro della sala, il modello berniniano di un angelo inginocchiato per la Cappella del Sacramento in San Pietro (1673). Come per il «San Gerolamo» di Leonardo, anche in questo caso, con la possibilità di apprezzare l’opera per la sua intrinseca valenza estetica, ci è offerta quella di comprendere la tecnica con cui la stessa fu materialmente costruita. Vediamo dunque un modello in terra cruda che veniva realizzato con un supporto di paglia e rametti in legno, uniti da fascine, e armature metalliche per le parti pesanti e in aggetto, come le ali dell’angelo. Si tratta di un modello vero e proprio, non di un bozzetto, che doveva servire per l’approvazione da parte della committenza. La lunga fase progettuale della Cappella, iniziata nel 1629, si concluse solo diversi decenni più tardi. Urbano VIII, il papa che l’aveva commissionata, non fece in tempo a vederla realizzata.

Anche nella sala seguente si scorgono modelli di grandi dimensioni…
Nella sala XIII, tre tele di Pietro d Cortona – tra cui l’«Apparizione della Madonna col Bambino a San Francesco d’Assisi», del 1641 ca. – fanno da corona, con altre opere di Andrea Sacchi, di Guido Reni, di Pier Francesco Mola e del Guercino, a un’ulteriore infilata di sculture del Bernini – modelli in terra cruda per gli angeli che si collocano ai lati della Cattedra nell’omonimo altare in San Pietro (1656-66). La Cattedra è un manufatto del IX secolo, all’epoca e ancora per lungo tempo ritenuto il seggio ministeriale di Pietro, primo discepolo di Cristo e suo primo vicario nella successione apostolica. Di qui, l’importanza annessa alla conservazione della reliquia, segno di continuità e pietra di fondazione del primato cattolico.

Le prime notizie sulla sua presenza in San Pietro si perdono nella notte dei tempi, ma per tutto il Medioevo e gran parte dell’era moderna lo scanno fu custodito gelosamente, in una cappella laterale della basilica. Quando, nel 1656, se ne decise il trasferimento nell’abside, il riconoscimento della sua importanza richiese la progettazione di un apparato adeguato, che ne accrescesse esponenzialmente la visibilità. Bernini, si mise all’opera, ideando una decorazione che si faceva carico, in termini dottrinali, del ruolo fondante della reliquia, magnificandone teatralmente il contenuto ideologico. Per quanto riguarda in particolare le figure angeliche, destinate a ornare i fianchi della custodia del seggio, possiamo distinguere tra i modelli di minori dimensioni, utilizzati dal Bernini per una prima prova in situ, e i modelli definitivi, realizzati in scala maggiore, che funsero successivamente da guida per la fusione delle controparti in bronzo.

Sappiamo che la prima coppia fu collocata, nell’aprile del 1660, su una struttura lignea provvisoriamente innalzata nell’abside che il Sacchi, come racconta il Pascoli, giudicò severamente per l’eccessiva esiguità delle proporzioni. La seconda coppia fu invece trovata idonea ma fu anche l’ultima ad essere gettata in bronzo, essendo nel frattempo intervenuti diversi cambiamenti dall’idea iniziale. Le nuove figure, accresciute di circa un terzo rispetto alle precedenti, furono lavorate nei primi mesi del 1665, per essere infine calcate e realizzate in fusione nell’autunno di quello stesso anno. E’ opinione comune che il Bernini stesso abbia modellato queste forme prima della partenza per Parigi (primavera 1665), con poco o nessun aiuto da parte degli assistenti, come le carte d’archivio peraltro comprovano. Del resto, anche le teste colossali di «Sant’Atanasio» e di «San Giovanni Crisostomo», esposte lì accanto, sembrano doversi ricondurre alla responsabilità diretta del grande scultore.

Insomma, un autentico trionfo del Barocco romano, qui rappresentato anche da altre tele …

Tra i modelli berniniani e le opere pittoriche presenti nella sala c’è una perfetta sincronia temporale: è come ascoltare un organico musicale cimentarsi, con un intreccio di voci e di parti solistiche, nelle partiture più rappresentative del periodo. Non dobbiamo però dimenticare che, oltre alle opere nominate, le pareti espongono anche tele di Giovanni Francesco Castiglione, Orazio Gentileschi, e, tra gli stranieri, Vincent Malò, Trophime Bigot, Nicolas Poussin e Pieter Paul Rubens.

Il gotha della pittura internazionale passava da Roma per abbeverarsi alle sorgenti della classicità e dare vita, a sua volta, alle tante declinazioni del classicismo secentesco. In fondo, anche la sala che viene dopo ribadisce gli stessi concetti, proponendo nature morte e composizioni floreali in chiave, appunto, naturalistica e «devota», caratteristiche della pittura contro-riformata. E’ un clima di coltivata sensibilità religiosa, al tempo stesso ermetico e comunicativo, cui non è estranea la stessa componente caravaggesca, ma divenuta qui linguisticamente cosmopolita, dove traspaiono con chiarezza i rapporti con il misticismo nordico, guardato con favore soprattutto in ambito gesuitico.

IL MUSEO INFINITO
Un viaggio dentro i Musei Vaticani accompagnati da guide d’eccezione: i curatori responsabili delle sue collezioni
A cura di Arianna Antoniutti

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