IL MUSEO INFINITO | La Pinacoteca Vaticana
Storia, opere e luoghi dei Musei Vaticani, a cura di Arianna Antoniutti. Il Cinquecento





Guido Cornini, storico dell’arte medievale e moderna, delegato scientifico della Direzione dei Musei Vaticani, ci accompagna tra le sale della Pinacoteca Vaticana.
Come ha già accennato, oltre alle tre pale di cui abbiamo parlato, la sala VIII contiene anche gli arazzi del famoso ciclo con gli Atti degli Apostoli, commissionati a Raffello da Leone X per la Cappella Sistina e recentemente al centro di una vostra proposta di allestimento. Mai come in quell’occasione è stato possibile toccare con mano la versatilità del genio raffaellesco e l’enorme significato che la sua arte dovette assumere per le età successive …
Per molti versi, la sala VIII, con il suo straordinario concentrato di opere raffaellesche, rappresenta il giro di boa, fisico e concettuale, della Pinacoteca, dove si pongono le basi della pittura moderna. Nella sala seguente, il «San Girolamo» di Leonardo, sublime manifesto della spiritualità neoplatonica, è anche un insolito spaccato dell’interiorità del suo autore – documento di straordinaria valenza storiografica, a partire dalla sua stessa storia collezionistica, che lo vede prima proprietà di Angelika Kauffmann e poi del cardinal Joseph Fesch, zio di Napoleone.
Su consiglio di Luigi Agricola e Tommaso Minardi, a metà Ottocento il dipinto fu riscattato dal Monte di Pietà, dove era finito dopo la bancarotta del suo ultimo proprietario, e consegnato a Pio IX per le gallerie pontificie. Si tratta dell’unico Leonardo conservato a Roma e, anche, di un’opera in cui è agevole seguire il processo tecnico secondo cui l’artista operava, partendo dal disegno, poi chiaroscurandolo e infine aggiungendo i colori.
La sua datazione oscilla tra gli ultimi anni della stagione fiorentina (per le palesi analogie con l’«Adorazione» degli Uffizi, anch’essa lasciata incompiuta) e i primi anni del soggiorno milanese (per la perspicuità della descrizione anatomica e la stratificazione geologica del paesaggio). Una recente proposta di Carmen C. Bambach, che lo data intorno al 1483-84, quando l’artista è ormai al servizio di Ludovico il Moro, ma in una fase ancora reminiscente dell’eredità fiorentina, sembra mettere d’accordo queste due opposte polarità interpretative.
Sempre in questa sala, è presente un’altra opera – veneta, questa volta – di assoluta perfezione formale: la cimasa della Pala Pesaro (1473-76) di Giovanni Bellini. Un momento di altissima poesia religiosa, dove alla tragica fissità del Cristo morto si contrappone il doloroso contegno delle tre figure che si accingono a ungerne il corpo: Maria Maddalena, Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, assorte in una contemplazione devota di cui il fedele è idealmente invitato a farsi partecipe. Si tratta oltretutto di una tappa di grande importanza nell’evoluzione tecnico-compositiva dell’artista che, allentando la «presa» prospettica di tradizione quattrocentesca, sembra anticipare soluzioni tonali del secolo successivo.
Anche nella sala seguente si conservano diverse opere di maestri veneti
Nella Sala X, tanto per rimanere in tema, spicca tra tutte la grande pala della «Madonna col Bambino e Santi», di Tiziano, da San Niccolò dei Frari al Lido. La Vergine si sporge dalle nuvole, seduta con il Bambino in grembo, adorata da San Nicola, da San Sebastiano e dagli altri Santi che alzano gli occhi al cielo per contemplarla, ma il restauro del 1965 ha rivelato, al di sotto dell’ultima stesura, una diversa redazione del soggetto, con i protagonisti della scena radunati ai piedi della Vergine in trono.
A una prima versione più tradizionale, risalente, secondo la critica, agli anni intorno al 1514, ne seguì dunque un’altra – l’attuale – che doveva essere verosimilmente pronta per il 1522, data di consacrazione dell’altare di destinazione. Secondo una relazione del 1854, il dipinto pervenne nelle collezioni pontificie quando Gavin Hamilton, che lo aveva acquistato a Venezia dove si era danneggiato a seguito di un incendio, lo vendette a Clemente XIV per il Palazzo del Quirinale.
Questo e altri dipinti «tizianeschi» della sala, come il «San Giorgio e il Drago» di Paris Bordon, dalla chiesa di San Francesco a Noale presso Treviso (Paris era stato da giovane un allievo di Tiziano, sebbene la sua attività centrale risenta di suggestioni dalla pittura del Pordenone) e il profilo postumo del doge Niccolò Marcello, dello stesso Tiziano, mostrano, pur in assenza di legami con Roma, l’estensione geografica del collezionismo pontificio.
La sala accoglie anche opere di autori minori del Rinascimento veneto, come Bonifacio de’ Pitati, detto Bonifacio Veronese, e Francesco Bissolo: ma capolavoro assoluto di questo ristretto manipolo è senz’altro la «Visione di Sant’Elena», di Paolo Veronese – composizione di straordinaria forza inventiva, dove il leggendario sogno che avrebbe ispirato all’imperatrice il viaggio a Gerusalemme è reso con suprema eleganza, lirismo e senso del colore.
A differenza di altri esponenti della stessa corrente, Veronese predilige soggetti allegorici o della storia profana, sui quali proiettare il mito di una Venezia prospera e trionfante, padrona dei mari come delle vie terrestri. Lo si vede anche nell’ottagono delle «Arti Liberali», probabile elemento di un soffitto che comprendeva anche le allegorie della «Pace» e del «Buongoverno», oggi conservate entrambe alla Pinacoteca Capitolina.
Guardandomi intorno, vedo altre testimonianze della pittura dopo Raffaello, a Roma e nell’Italia del nord: quello che però credo sia il principale documento del Raffaellismo della prima ora è la pala dell’«Incoronazione» per le monache di Monteluce. Ricordo anzi che il dipinto ha una storia assai complessa.
La pala per l’altare maggiore della chiesa conventuale di Monteluce a Perugia fu commissionata a Raffaello già nel 1503 (come «Assunzione di Maria») e quindi di nuovo nel 1505 (come «Incoronazione della Vergine») dalle clarisse del monastero. In realtà, nonostante le penali previste, ancora nel 1516 il dipinto non era stato eseguito, così che si rese necessaria una nuova contrattazione.
In base alla nuova stipula, il pittore, allora impegnato per diversi lavori in Vaticano e altrove, si obbligava a consegnare il quadro entro il 15 agosto dell’anno successivo. Anche questo accordo non venne tuttavia rispettato e solo nel 1523, dopo la morte dell’artista, gli allievi Giulio Romano e Giovan Franceso Penni ne portarono a termine l’esecuzione.
Come per la «Trasfigurazione» nella sala VIII (e per il cartone della «Lapidazione di Santo Stefano» dello stesso Giulio Romano, similmente impostato su un doppio registro compositivo), anche in questo caso si discute molto fin dove possa essersi spinto l’intervento autografo del capo-bottega, eventualmente da ricercarsi, in questo come negli altri casi, nella metà superiore della composizione.
Anche gli sviluppi del cosiddetto “Manierismo” occupano uno spazio considerevole nell’avvicendamento delle sale
Le pareti della sala XI, dominata dalla grande tela di Girolamo Muziano raffigurante la «Resurrezione di Lazzaro», eseguita dal maestro nel 1555, quasi certamente per la propria sepoltura in Santa Maria Maggiore, ospitano, con altre tavole del medesimo artista, testimonianze di autori attivi a Roma nel secondo Cinquecento (Girolamo Siciolante, Cavalier D’Arpino, Tommaso Laureti, Marcello Venusti), come pure bolognesi (la «Trinità col Cristo morto» di Ludovico Carracci) e fiorentini (il «Miracolo della neve» e la «Processione di San Gregorio» di Jacopo Zucchi).
Un gruppo a sé è invece costituito dalle opere di Federico Barocci da Urbino, caratterizzate tutte dalla comune destinazione ecclesiastica e contraddistinte dalla particolare sensibilità che questo artista ebbe per la stesura sfumata e cangiante del colore. Come per i Crivelli di sala VI, anche questo nucleo di opere delinea un insieme autografo omogeneo, raro a trovarsi al di fuori dei luoghi che ospitarono l’attività storica del pittore o delle istituzioni che, dal punto di vista collezionistico, ne raccolsero l’eredità.
Il «Riposo durante la fuga in Egitto» – detto anche «Madonna delle ciliegie» – è una fortunatissima invenzione messa a punto per il duca Guidobaldo della Rovere e da questi donata alla duchessa Lucrezia d’Este di Ferrara nel 1570 (la versione vaticana è però quella realizzata dallo stesso Barocci per Simonetto Anastagi di Perugia del 1573); l’«Annunciazione», dipinta per Francesco Maria II Della Rovere e destinata alla Cappella dei Duchi di Urbino nella Basilica di Loreto (1582-84), anticipa invece la versione, di poco successiva, per la basilica di Santa Maria degli Angeli ad Assisi (1596), mentre la grande tela con «San Francesco che riceve le stimmate», a lungo ritenuta derivazione del più celebre soggetto per la chiesa dei Cappuccini di Urbino, del 1594-95, è risultata, a seguito del restauro del 1982, una variante autografa dello stesso autore, lasciata allo stato di abbozzo e risalente probabilmente agli anni tra il 1574 e il 1576.
Ultima pala del gruppo, la visione della «Beata Michelina Metelli», dipinta nel 1606 per la chiesa di San Francesco a Pesaro, racconta delle estasi mistiche cui la donna, vissuta nel XIV secolo, fattasi terziaria francescana e consacratasi ai poveri dopo la morte del marito e del figlio, andava soggetta, in una vita di digiuni e contrizione. Come è stato giustamente notato, la visione che, nell’oscurità del paesaggio notturno, si spalanca davanti agli occhi della Beata non viene rivelata allo spettatore, che ne diventa tuttavia partecipe, in ragione dell’empatia suscitata dall’immagine.
IL MUSEO INFINITO
Un viaggio dentro i Musei Vaticani accompagnati da guide d’eccezione: i curatori responsabili delle sue collezioni
A cura di Arianna Antoniutti