IL MUSEO INFINITO | La Pinacoteca Vaticana

Storia, opere e luoghi dei Musei Vaticani, a cura di Arianna Antoniutti. La Sala VIII. Raffaello

Raffaello, «Trasfigurazione di Cristo», 1517-20, olio su tavola (particolare), dalla chiesa di San Pietro in Montorio a Roma. Pinacoteca Vaticana, inv. 40333 Raffaello, «Incoronazione della Vergine» (Pala Oddi), 1502-03 (particolare), tempera grassa su tavola trasportata su tela, dalla Cappella Oddi nella chiesa di San Francesco al Prato a Perugia. Pinacoteca Vaticana, inv. 40334 Bottega di Pieter van Aelst su cartone di Raffaello, «Chiamata dei primi Apostoli», manifattura di Bruxelles, 1515-19, arazzo, dalla serie degli Atti degli Apostoli («Scuola vecchia»), commissionata da Leone X per la Cappella Sistina. Pinacoteca Vaticana, inv. 43868 Bottega di Pieter van Aelst su cartone di Raffaello, «Pesca miracolosa», manifattura di Bruxelles, 1515-19, arazzo, dalla serie degli Atti degli Apostoli («Scuola vecchia»), commissionata da Leone X per la Cappella Sistina. Pinacoteca Vaticana, inv. 43867.2.1 Raffaello, «Madonna col Bambino tra il committente e i Ss. Giovanni Battista, Francesco e Gerolamo», (Madonna di Foligno), 1511-12 (particolare), tempera grassa su tavola trasportata su tela, dalla chiesa dell’Ara Coeli a Roma (dal 1565 nel Monastero di Sant’Anna, detto Monastero delle Contesse, a Foligno). Pinacoteca Vaticana, inv. 40329
Guido Cornini |  | Città del Vaticano

Guido Cornini, storico dell’arte medievale e moderna, delegato scientifico della Direzione dei Musei Vaticani, ci accompagna tra le sale della Pinacoteca Vaticana.

La sala VIII della Pinacoteca è uno dei punti forti della visita e certamente quello dove il pubblico si ferma più volentieri. Può darcene un inquadramento?
La Sala VIII è la Sala dedicata a Raffaello e ospita, assieme agli arazzi commissionati da Leone X per la Cappella Sistina (1516-21), la Pala Oddi, la «Madonna di Foligno» e la «Trasfigurazione»: tre momenti distinti o tappe salienti della produzione del grande maestro che, per il fatto stesso di essere scaglionate nel tempo, permettono di seguire con particolare agio l’evoluzione tecnica e stilistica del suo fare pittorico.

Delle tre, la pala Oddi fu la prima ad essere eseguita: commissionata verso il 1502-03 per l’altare che la famiglia possedeva nella chiesa di San Francesco al Prato a Perugia (una sorta di «Panhtheon» dell’aristocrazia cittadina), raffigura nel registro superiore, l’episodio celeste dell’incoronazione di Maria e in quello inferiore, separato da una striscia di nubi, quello terreno degli Apostoli al sepolcro di Maria, trionfalmente assunta in cielo alla destra del Figlio. Tanto la convenzionalità dell’impaginazione quanto la serialità dei tipi fisionomici rimandano al Perugino e ai modi calligrafici della sua tradizione, mentre nel paesaggio dai toni elegiaci e nel sarcofago posto di traverso si scorge un’esplicita volontà di rottura con gli studiati bilanciamenti compositivi del suo maestro.

Un dipinto di tale soggetto era stato commissionato per volontà testamentaria di Guido degli Oddi già una quarantina d’anni prima, poi confermato con analoga disposizione dalla moglie Giovanna, morta nel 1490, che aveva lasciato in eredità alla figlia Maddalena un’ingente somma per il completamento della cappella. Vasari indica Maddalena come committente del quadro, ma fu poi la cognata Alessandra Baglioni, moglie del fratello Simone, a portare a compimento l’impresa.

L’allogazione della pala al giovane Raffaello va dunque collocata sullo sfondo delle vicende interne perugine, condizionate, come per il passato, dagli altalenanti rapporti tra le due famiglie e dalla recente occupazione della città da parte di Cesare Borgia, figlio di Alessandro VI, al cui servizio gli Oddi erano entrati nel 1501, ponendo così fine all’esilio cui la fazione rivale dei Baglioni li aveva costretti fin dal 1489. Forse, il matrimonio di Simone con Alessandra, presupposto del coinvolgimento di quest’ultima nel finanziamento del dipinto, va letto proprio in questa chiave di rinnovata alleanza e pacificazione dinastica, anche se la tregua tra le due casate fu di breve durata e non impedì una nuova cacciata degli Oddi – questa volta definitiva – alla morte di papa Alessandro. Nella predella, per la quale, come per la tavola principale, rimangono numerosissimi studi preparatori, sono raffigurate l’«Annunciazione», l’«Adorazione dei Magi» e la «Presentazione al Tempio».

Sempre provenienti dalla chiesa perugina di San Francesco al Prato sono i tre scomparti di predella con le «Virtù Teologali» per la pala della «Deposizione di Cristo» – oggi alla Galleria Borghese – che fu commissionata da Atalanta Baglioni nel 1507.

Circostanze del tutto diverse accompagnano, qualche anno più tardi, l’allogazione al Sanzio della c.d «Madonna di Foligno», uno dei capolavori della maturità artistica del maestro, contemporanea della Stanza di Eliodoro in Vaticano. La storia dietro la committenza del quadro è nota: lo scampato pericolo per la caduta di quello che è stato definito un “meteorite” o un “fulmine globulare” (ma altri pensano a una palla di cannone) sulla sua casa di Foligno, risparmiata dalla distruzione, spinge l’umanista Sigismondo dei Conti, scriptor apostolico, segretario «domestico» e poi «politico» di Giulio II (nonché cancelliere e gonfaloniere della cittadina umbra) a commissionare a Raffaello, come ex voto alla Madonna, una pala per la basilica di S. Maria in Ara Coeli a Roma, dove lo stesso Sigismondo troverà poi sepoltura.

Nella studiata composizione della pala, il committente è raffigurato in basso, a destra, presentato alla Vergine in gloria da San Gerolamo con la partecipazione, a sinistra, del Battista e di San Francesco, protettore dei Minori, cui la chiesa apparteneva. Lo scrittore è raffigurato in primo piano, inginocchiato in preghiera con la cappa rossa del cubicularius, i segni dell’età avanzata evidenti sul profilo dai tratti marcati: l’episodio della caduta del bolide è invece raffigurato sullo sfondo, con una ricchezza di impasto cromatico che ha fatto parlare di una collaborazione con Dosso. Secondo Redig De Campos, l’opera sarebbe stata iniziata negli ultimi mesi di vita del committente e, dopo la sua morte, collocata come dono votivo sull’altare maggiore della chiesa.

La stessa iconografia della parte superiore della tavola, dove il Bambino si ritrae scherzoso sotto il mantello della Madre, entro una mandorla di luce circondata da cherubini, sarebbe anzi in relazione con quella del perduto catino absidale della chiesa capitolina, dove il Cavallini aveva raffigurato Maria “circondata da un cerchio di sole”, come nella nota visione avuta da Augusto il giorno della nascita di Gesù, secondo quanto riferito nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine.

Nel 1564, la pala fu trasferita a Foligno da un’erede dell’umanista, la badessa Anna, presso il convento dei Ss. Anna e Francesco (Monastero delle Contesse) di quella città, da dove la prelevarono i francesi  quasi duecentoquarant’anni più tardi. La datazione generalmente accettata è tra il 1511 e il 1512, poco prima della «Madonna Sistina» oggi a Dresda.

Abbiamo già sottolineato come le requisizioni francesi, senz’altro esecrabili sul piano diplomatico e militare, avessero comunque dato un contributo di svecchiamento alla cultura museografica internazionale. Può dirsi qualcosa del genere anche per la scienza della conservazione?

Tanto la «Madonna di Foligno» che la Pala Oddi, rivendicate da Napoleone in forza del Trattato di Tolentino, furono sottoposte in Francia a un delicato intervento di restauro, consistente nel distacco delle superfici dipinte delle tavole e nel loro trasporto su tela. Il lavoro fu eseguito, con abilità davvero magistrale, da François Toussaint Hacquin e Mathias Roeser (1800-01), due tra i massimi restauratori dell’epoca.

Bisogna considerare che Parigi, proprio per la consistenza senza confronti delle ricchissime raccolte reali, era all’avanguardia nella scienza del restauro. Comunque, nell’esaminare questi dipinti e gli altri, il più delle volte di grandi dimensioni, sottratti dai luoghi d’origine e spediti in Francia, si resta stupiti dallo stato di conservazione tutto sommato soddisfacente dei rispettivi elementi costitutivi: specie se si considerano i mezzi, gli imballaggi e le avversità climatiche cui le opere dovettero andare incontro, nel percorrere il viaggio nei due sensi.

Terza ad essere requisita – ma, fortunatamente, senza necessità di interventi tanto invasivi  – fu la pala della «Trasfigurazione», un vertice assoluto dell’arte rinascimentale, certamente il dipinto che più di ogni altro segna, secondo la concorde opinione della critica, l’apogeo  tecnico e creativo di Raffaello, stroncato da morte prematura il 6 aprile 1520. Il quadro fu anche l’ultimo su cui l’artista avrebbe avuto modo di lavorare, dipingendovi nella metà superiore la trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor, alla presenza di Mosè e di Elia, che lievitano nell’aria alla sua destra e alla sua sinistra, e di Pietro, Giovanni e Giacomo, distesi a terra in atto di schermarsi gli occhi. Nella metà inferiore è invece è invece raffigurata la miracolosa guarigione dell’ossesso, alla presenza degli apostoli e di una donna vista di spalle, simboleggiante la Fede.

Sappiamo che la pala fu allogata all’artista per la cattedrale di San Giusto a Narbonne dal cardinale Giulio de’ Medici, divenuto vescovo della città nel 1515, e che sempre per la medesima cattedrale il prelato aveva commissionato a Sebastiano del Piombo il quadro con la «Resurrezione di Lazzaro» oggi a Londra. La competizione che ne nacque può essere seguita, almeno per quanto riguarda Sebastiano, nel carteggio di quest’ultimo con Michelangelo Buonarroti, allora residente a Firenze, che non lesinò consigli al collega per la buona riuscita della tavola. Da parte sua, Raffaello preferì invece attenersi a uno schema già collaudato in precedenza e sul quale era tornato ancora di recente per la pala dell’«Incoronazione» di Monteluce, in esposizione nella decima sala.

Come nel caso delle pale già esaminate, infatti, anche questa presenta una netta separazione tra una sfera mondana e una sfera oltremondana, segnalata dal profilo frastagliato del paesaggio, coincidente all’incirca con la linea d’orizzonte. E’ anzi questo comune espediente compositivo a consentire l’esposizione contestuale dei tre dipinti, di dimensioni pressappoco equivalenti.

Che cosa può dirci in merito all’autografia di questo che è forse l’ultimo dipinto mobile di Raffaello?

La critica si è lungamente occupata della «Trasfigurazione», lodandola per tutta una serie di innovazioni che sono qui espresse al massimo grado: la distribuzione poderosa delle masse, l’orchestrazione sapiente dei colori, la risentita plasticità del modellato. Addirittura l’uso incisivo del chiaroscuro, anticipatore di soluzioni che saranno fatte proprie dal luminismo secentesco.

Molto si è poi discusso e si continua a discutere circa il possibile intervento di Giulio nel completamento del dipinto, che il Vasari afferma lasciato incompiuto da Raffaello nella metà inferiore ed esposto quindi sul suo letto di morte, suscitando l’incontenibile commozione dei presenti. Mentre la perfetta contiguità pittorica e di stile non lascia scorgere cesure tra i due supposti blocchi di intervento, una parola definitiva potrà forse essere fornita dal confronto tra gli schizzi superstiti per l’una e l’altra parte, e dalla comparazione di questi con lo studio diagnostico del disegno preparatorio, tutt’ora presente sulla tavola al di sotto la pellicola pittorica (underdrawing).

IL MUSEO INFINITO
Un viaggio dentro i Musei Vaticani accompagnati da guide d’eccezione: i curatori responsabili delle sue collezioni
A cura di Arianna Antoniutti

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