IL MUSEO INFINITO | La Collezione d’Arte Moderna e Contemporanea

Storia, opere e luoghi dei Musei Vaticani, a cura di Arianna Antoniutti. Prima parte

«Pietà», 1890 ca, di Vincent Van Gogh La Sala Matisse Francis Bacon, «Study for Velasquez Pope II», 1961 La Sala Marino Marini Henri Matisse, «La Vierge à l'Enfant», 1949
Micol Forti |  | Città del Vaticano

Prosegue il nostro viaggio all’interno del Museo Infinito. Dopo la Pinacoteca Vaticana e il Museo Pio Cristiano, entreremo nella Collezione d’Arte Moderna e Contemporanea. A Micol Forti, curatore della Collezione, abbiamo chiesto di illustrare in che modo, e con quali intenti, nasce la sezione dei Musei del papa dedicata all’arte contemporanea.

Ufficialmente la Collezione d’Arte Moderna e Contemporanea si apre ai visitatori dei Musei Vaticani il 23 giugno del 1973, ma la sua storia inizia con il pontificato di papa Paolo VI, Giovan Battista Montini. Pochi mesi dopo la sua elezione, infatti, papa Montini convoca il mondo internazionale dell’arte in Cappella Sistina. È il 7 maggio del 1964. È in quella simbolica cornice che pronuncia il celebre discorso nel quale pone le basi per la nascita non solo della futura Collezione, ma per il ripristino del dialogo tra la Chiesa e la cultura contemporanea.

Nelle sue parole Paolo VI riconosce all’arte la libertà nella ricerca e nell’espressione, il coraggio di affrontare quesiti e problematiche ardue e audaci, e soprattutto la capacità di farsi ponte tra la realtà e la trascendenza, tra ciò che vediamo e ciò che sentiamo presente, urgente, vero ma che rimane indicibile e invisibile. Allo stesso tempo chiede all’arte rispetto e rigore quando si accosta ai temi sacri, alla tradizione, al dialogo con specifici contesti, come sempre accade nel momento in cui un artista si confronta con una committenza o con una specifica funzione della sua opera.

Ma soprattutto denuncia la distrazione, spesso la superficialità che la Chiesa ha mostrato davanti alle cruciali questioni che l’arte del Novecento stava ponendo, prediligendo “opere di poca spesa” a dispetto del faticoso lavoro di prendere parte, capire, discutere con le ricerche del nostro tempo. Infine auspica una ripresa di quel dialogo, fertile e pur complesso, che la Chiesa e l’arte hanno intessuto nei secoli passati, per riprendere il cammino comune e parallelo verso la spiritualità, la ricerca della Verità e della Bellezza. E per fare questo lancia un progetto concreto: costruire una Collezione che possa rendere conto della ricchezza delle ricerche svolte e in corso di sperimentazione, perché i musei non devono essere “cimiteri”, luoghi di contemplazione di una bellezza passata, ma luoghi vitali dove continuano a maturare le idee, le necessità, le domande del nostro tempo.

In soli nove anni, dal 1964 al 1973, il pontefice, e lo staff che lo coadiuva, raccoglie circa 1500 opere che verranno in parte esposte negli ambienti dell’appartamento Borgia e delle sale sottostanti la sala Regia e la Cappella Sistina, dove ancora oggi ha sede la Collezione.

Questo primo nucleo, entrato come collezione privata del pontefice, viene da lui trasferito ai Musei Vaticani, il luogo simbolo della conoscenza, della tutela, della conservazione, della divulgazione del Patrimonio della Chiesa. A differenza degli altri nuclei collezionistici dei Musei, la sezione dedicata all’arte contemporanea dovrà avere la caratteristica di mantenere attivo il dialogo e il confronto con la contemporaneità, attraverso l’incremento della collezione e il contatto con gli artisti.

Attualmente la Collezione comprende circa 9mila opere tra dipinti, sculture, disegni, opere grafiche, fotografie e opere video. Nelle sale espositive sono presenti circa 450 opere.

Può guidarci in un percorso attraverso le sale della Collezione, attirando la nostra attenzione su alcune delle opere maggiormente significative?
Un percorso lungo le 37 sale di cui si compone la Collezione richiederebbe troppo tempo. Mi limito qui a segnalare alcuni capolavori e alcune opere uniche per tipologia, storia, stile o provenienza. Non posso non partire dalla «Pietà» che Vincent van Gogh dipinge nel settembre del 1889 (sala 2). Un’opera che, come ogni grande capolavoro, racchiude in sé una stratificazione di significati e corrispondenze, assolutamente sorprendenti. Il dipinto nasce da un incidente: nel corso di una crisi nervosa gli infermieri che soccorrono Vincent, degente nella clinica psichiatrica di Saint-Rémy, rovesciano dell’olio e dei colori su un’incisione che l’artista portava sempre con sé.

Si tratta della riproduzione della «Pietà» dipinta nel 1850 da Eugène Delacroix. Van Gogh, che non vedrà mai l’originale, è affascinato dalla «verità» con cui l’artista ha ritratto il dolore di una madre che tiene «nelle mani da operaia» il corpo del figlio ucciso. Sono queste le parole che Vincent usa per raccontare la sua ammirazione alla sorella Wilhelmina, alla quale spedisce questo piccolo dipinto. Ma la storia non si ferma qui, perché Vincent non sa che Delacroix per la sua «Pietà»si era ispirato alla «Deposizione» di Rubens (1611-14), pannello centrale del trittico ora nel museo di Anversa, e né Vincent né Delacroix intuiscono che Rubens, a sua volta, aveva tratto la figura del Cristo morto (proprio quella ripresa da entrambi gli artisti) alla figura del Laocoonte, che l’artista fiammingo copia numerose volte nelle lunghe giornate trascorse nei Palazzi Vaticani agli inizi del Seicento.

Così il capolavoro di van Gogh, uno dei rari soggetti sacri della sua produzione, è approdato grazie a una particolare storia collezionistica, nelle stesse mura dove è conservato il celebre gruppo scultoreo, dimostrando la straordinaria capacità delle opere d’arte di mantenere viva la memoria del passato e di essere fertili per sviluppi futuri.

La seconda tappa non è un’opera ma una sala che raccoglie i bozzetti preparatori per la «Cappella del Rosario» di Vence, in Costa Azzurra, realizzata da Henri Matisse tra il 1949 e il 1951 (sala 14). Si tratta dell’unica opera d’arte totale dell’artista, che progetta ogni aspetto di questa piccola e splendida cappella delle suore domenicane del Convento di Lacordaire: dall’architettura alle vetrate, dai pannelli in ceramica ai paramenti liturgici, dall’acquasantiera al tabernacolo, dall’altare alla porta del confessionale.

Un lavoro che assorbe il celebre e anziano artista in modo completo ed esclusivo, il quale sospende la realizzazione di ogni dipinto da cavalletto e decide di trasferirsi, dalla villa «Le rêve», nel grande studio nell’Hotel Regina di Nizza, dove ha a disposizione pareti di dimensioni analoghe a quelle della futura Cappella. I Musei Vaticani, grazie alla generosità del figlio Pierre e della figlia Marguerite, nonché delle suore del Convento di Lacordaire, possiedono una straordinaria collezione, esposta in una sala interamente dedicata all’artista.

In particolare i visitatori possono ammirare le tre del progetto finale delle vetrate, bozzetti 1:1 di oltre 5 metri di altezza e 6 metri di lunghezza, nei quali Matisse mette a punto la sua scelta cromatica e stilistica per le grandi vetrate che occupano interamente i lati sud e ovest della Cappella. Dai primi progetti – ricordati in un video in sala – nei quali ipotizza di realizzare un patchwork di colori sgargianti, l’artista riduce la sua tavolozza ai soli blu, verde e giallo, affidando ai riflessi, prodotti dai vetri nelle diverse ore del giorno, di proiettare i colori dell’iride sul pavimento che sceglie di lasciare bianco.

Affianca queste gouache il magnifico cartone raffigurante la «Vierge à l’Enfant». Anche in questo caso si tratta di un disegno 1:1, oltre 3 metri di altezza per 6 di lunghezza, matita, china e carboncino, nel quale Matisse realizza, con numerosi pentimenti, la ieratica e accogliente figura della Vergine che tiene in braccio il Bambino Gesù, raffigurato in piedi, con le braccia aperte. Le loro figure, sintetiche e eleganti, pur prive di volto conservano uno slancio e una potenza magnetiche. L’artista raggiunge questa sintesi dopo un lungo processo di elaborazione, riempiendo decine di quaderni, blocchi e bozzetti, nei quali da composizioni dettagliate e descrittive, arriva a queste immagini essenziali che, tuttavia, non corrispondono alla realizzazione finale. Infatti, nel momento in cui Matisse dipinge sulle ceramiche bianche, non è contento del risultato ed esegue senza cartone la composizione che oggi è in cappella.

Parte del processo creativo è raccontato all’interno di una vetrina, posta subito prima della sala, dove sono allestite alcune lettere e altre litografie dedicate proprio al volto della Vergine e al suo tenero abbraccio con il Bambino.

Completa la sala una prima fusione del Crocifisso destinato all’altare in pietra rosata che si trova al centro del presbiterio. Nella versione finale Matisse sceglie una finitura dorata e specchiata sia del corpo del Cristo che della croce; nel nostro bozzetto è invece presente il contrasto tra il bronzo scuro del Crocifisso e la lucentezza dorata della Croce. All’origine di questa straordinaria opera conclusiva della lunga carriera dell’artista, ci sono molti importanti amici e collaboratori, tra i quali meritano di essere ricordati, suor Jacques-Marie, al secolo Monique Bourgeois, già infermiera e modella di Matisse prima di entrare in convento, vera ideatrice della Cappella e del coinvolgimento del Maestro, e P. Alain Couturier, tra i più importanti fautori e promotori del rinnovamento dell’arte sacra in Francia, con il quale l’artista intreccia una ricca corrispondenza e una sincera amicizia.

Quasi un contraltare dell’opera di Matisse, è una delle sei versioni che il celebre e controverso pittore inglese, Francis Bacon, ha realizzato partendo dalla reinterpretazione del «Ritratto di Innocenzo X» di Velázquez, del 1650, conservato nella Galleria Doria Pamphilj di Roma (sala 30). «Study for Velazquez Pope II» è stato dipinto nel 1961 insieme ad altre cinque versioni che ritraggono il pontefice a tre quarti di figura e ad altre sei che lo ritraggono a mezzo busto, in un esercizio quasi ossessivo di confronto con lo stesso soggetto, come documentato da una ricca serie di disegni e schizzi. Questa versione è stata donata alla Collezione di Arte Moderna e Contemporanea dall’avvocato Giovanni Agnelli al momento della nascita della Collezione, nel 1973. Il dipinto è il risultato di una profonda riflessione sulla tradizione e sulle icone del passato il cui fascino è come moltiplicato nella società contemporanea, quella del boom economico quando Bacon dipinge. Ma al tempo stesso l’artista ci propone uno sguardo su ciò che si nasconde oltre la superficie, oltre la forma anche quando questa appare immutata nel tempo. Bacon esaspera la capacità di Velázquez di restituire l’intelligenza e l’astuzia del pontefice ritratto, la consapevolezza del suo potere che diventano il vero contenuto del dipinto. Nel restituire la decomposizione della forma, della stessa carne, l’artista ci impedisce di eludere le ansie, le paure, le angosce che accompagnano le nostre domande e il nostro cammino lungo i sentieri della vita.

Tra le tante meraviglie conservate nella nostra Collezione di Arte Moderna e Contemporanea, mi piace anche ricordare qualche altro capolavoro: le opere visionarie e sognanti di Marc Chagall, le ieratiche e metafisiche nature morte di Giorgio Morandi, il mondo fantastico e onirico di Salvador Dalí, la pittura cruda e potente di artisti messicani come Orozco, Tamayo, Rivera, l’impegno politico e sociale dell’americano Ben Shahn, o la magnifica sala interamente dedicata alla produzione, sia scultorea che pittorica di Marino Marini, nella quale si può ammirare l’intera parabole del suo percorso artistico.

IL MUSEO INFINITO
Un viaggio dentro i Musei Vaticani accompagnati da guide d’eccezione: i curatori responsabili delle sue collezioni
A cura di Arianna Antoniutti

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