IL MUSEO INFINITO | Il Museo Pio Cristiano

Storia, opere e luoghi dei Musei Vaticani, a cura di Arianna Antoniutti. Sarcofagi

Sarcofago «dei martiri portuensi». Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano Sarcofago «dogmatico». Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano Sarcofago «a grandi pastorali». Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano Sarcofago «dei due fratelli». Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano La restauratrice V. Felici al lavoro nel box di restauro a vista lungo il percorso del Museo Particolare del sarcofago «dei martiri portuensi». Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano
Alessandro Vella |  | Città del Vaticano

Prosegue la nostra visita al Museo Pio Cristiano. Abbiamo chiesto ad Alessandro Vella, curatore con Umberto Utro del Museo, di illustrarci alcune delle opere qui esposte.

Potremmo fermare lo sguardo sul Sarcofago «a grandi pastorali», che si caratterizza per aver conservato tracce molto consistenti della finitura originale, con una superficie magnificamente policroma e dorata. Tale caratteristica di preziosità si può osservare non solo direttamente sui dettagli del sarcofago, che sono già stati oggetto di un riuscito restauro, ma anche attraverso il video didattico che è posto accanto ad esso. Grazie alla tecnologia possiamo mostrare lo stato originario dell’opera, rendere visivamente l’idea di come essa doveva apparire.

Ci troviamo nella sezione iniziale del Museo, quindi le tematiche sono ancora di tipo neutro: pastorale e agreste. Come abbiamo detto, la tipologia a cui questo esemplare appartiene è quella dei sarcofagi «a grandi pastorali», con scene d’ispirazione bucolica che ne occupano l’intera fronte. La presenza di una donna orante e di un pastore crioforo, ossia recante un ariete sulle spalle, sono state un tempo lette come indizio certo di cristianesimo, ma di ciò non possiamo in realtà essere sicuri. Ci troviamo ancora in quel limbo di iconografie condivise, per così dire, con il mondo pagano.

La matrice comune alle diverse immagini consiste difatti nella tematica agro-pastorale che, a ben guardare, non si limita a proporre la raffigurazione di un semplice ambiente naturale, benché idealizzato e idilliaco, bensì ne esalta la dimensione di paesaggio «culturale». Il fulcro dell’intera scena è infatti rappresentato da un edificio rustico, una villa, che costituisce la forma di insediamento più caratteristica delle campagne di età romana, particolarmente cara all’immaginario della società aristocratica dell’epoca, proprietaria delle grandi tenute agricole. Ciò che viene con piena evidenza raffigurata, non è una natura selvatica ma, al contrario, una natura domestica, produttiva.

Queste immagini ebbero un grande successo, in quanto rappresentavano il passaggio della morte attraverso la metafora di una situazione ideale, il momento in cui il romano si disimpegnava dagli affari della vita attiva e si ritirava dalla città, dedicandosi all’otium della campagna. La serenità dell’ambientazione agreste si prestava inoltre a una lettura escatologica, come allegoria dell’aldilà beato.

Resta dubbio, di fronte a una scena di questo tipo, se il sarcofago che la ospita sia realmente da considerare una tomba cristiana. Il concetto stesso di «cristianità» di una sepoltura è già in sé abbastanza complesso e in esso bisogna distinguere almeno due diversi fattori: l’effettiva fede della persona sepolta nella tomba (elemento che, in assenza di altre informazioni, difficilmente possiamo determinare a distanza di millenni) e l’eventuale volontà del defunto di rappresentarsi o meno come cristiano nell’ambito del proprio sepolcro. Quest’ultimo è in genere il solo elemento che siamo in grado di giudicare.

Nell’età molto precoce a cui è riferibile questo sarcofago, attorno al 300 d.C., le tematiche schiettamente cristiane non erano però così diffuse nella scultura funeraria e a fare chiarezza sulla fede del defunto non contribuisce neanche il contesto di ritrovamento del sepolcro. Il sarcofago fu difatti rinvenuto sulla via Prenestina, vicino a Villa Gordiani, sotterrato accanto a un altro esemplare decorato con scena dionisiaca.

Peculiare è il motivo che ha consentito la conservazione della policromia del sarcofago «a grandi pastorali», contraddistinto dalle vivide tinte (il rosso, l’azzurro, l’oro) e da finezze straordinarie, come il colore azzurro degli occhi di alcuni personaggi e la rappresentazione dettagliata delle ciglia delle varie figure, comprese quelle delle pecore. Il sarcofago è stato ritrovato all’interno di una fossa scavata nel tufo e sigillata con malta: questo spiega perché i colori si siano straordinariamente preservati ma indica anche che, così interrato, il sarcofago non poteva essere visto da nessuno.

Ed è curioso che un oggetto talmente raffinato, riccamente rifinito, non fosse pensato per essere visto. Questo vale in realtà anche per molti altri sarcofagi e induce a porsi delle domande. I sepolcri erano decorati per essere ammirati e apprezzati? In alcuni casi sì, eventualmente anche con intento di ostentazione al momento della cerimonia funebre. In altri casi, la suntuosità e la preziosità della decorazione erano forse intese più come omaggio al defunto, veicolo di un messaggio beneaugurante che lo accompagnasse nel passaggio della morte, indipendentemente dalla reale visibilità della tomba.

Accanto alla possibilità di ammirare opere così significative, una esperienza inedita all’interno del Museo consiste in un cantiere di restauro aperto alla vista del pubblico. In questa postazione i restauratori lavorano sulle opere della nostra collezione, utilizzando sovente metodi e tecnologie innovativi. Ad esempio, per i materiali lapidei, viene ormai comunemente adottato un trattamento con agar agar, un’alga che, opportunamente lavorata e portata a conveniente densità, si applica direttamente sulla superficie dell’opera, andando ad ammorbidire le concrezioni esistenti, che possono essere poi rimosse con facilità, senza danni per l’oggetto. All’interno dei nostri laboratori abbiamo inoltre la possibilità di compiere analisi e indagini diagnostiche, in modo da determinare la tipologia di pulitura a seconda della natura dei depositi da rimuovere.

Proseguendo nel nostro percorso di visita, non si può prescindere dal sostare di fronte a due monumentali sarcofagi, posti l’uno accanto all’altro, che si impongono alla vista per la loro presenza maestosa e risultano notevoli per qualità artistica, oltre che per la complessità e l’interesse del loro programma figurativo. Si tratta dei due esemplari noti, rispettivamente, come sarcofago «dei due fratelli» e sarcofago «dogmatico».

Il primo prende nome dal ritratto centrale rappresentante due uomini, probabilmente due fratelli, appunto, se non due gemelli, vista la loro grande somiglianza fisionomica. I sarcofagi sono spesso intesi come sepolture individuali, ma quelli di maggiori dimensioni ospitano normalmente almeno una coppia di persone, in genere moglie e marito. Trattandosi di oggetti per lo più prodotti in serie, anche le figure che dovevano fungere da ritratto dei defunti erano, per così dire, prefabbricate ed erano spesso costituite da una coppia di coniugi: solo i corpi venivano scolpiti nel dettaglio, mentre i volti erano lasciati abbozzati e venivano portati a compimento solo al momento dell’acquisto, o del primo utilizzo.

Nel nostro caso, un sarcofago previsto per una coppia di sposi (e lo capiamo dalle vesti femminili di una delle figure) venne poi utilizzato per due uomini, i cui ritratti furono inseriti nello spazio predisposto per i volti dei due coniugi, senza troppo preoccuparsi delle forme incongruenti del corpo delle donna.
A parte questa curiosità, il motivo principale per cui quest’opera è un capolavoro della collezione è la sua qualità esecutiva e lo stile, un raffinato classicismo di età costantiniana. Sovente, nei sarcofagi, ci troviamo di fronte a raffigurazioni standardizzate, tratte da cartoni che circolavano nelle botteghe e che venivano riprodotti, a volte, anche senza essere compresi fino in fondo.

In questo esemplare databile al 325-350 d.C. ca., proveniente dalla basilica di S. Paolo fuori le Mura, abbiamo invece iconografie originali, che non trovano sempre confronto in modelli analoghi. Diverse scene bibliche sono disposte su due registri lungo la fronte: in alto, la risurrezione di Lazzaro, la predizione del rinnegamento di Pietro, la consegna della Legge a Mosè e, oltre il clipeo con i ritratti dei defunti, il sacrificio d’Isacco e la presentazione di Cristo a Pilato; in basso, Pietro che battezza i carcerieri, Daniele tra i leoni, la rara scena della catechesi di Pietro ai soldati, il miracolo del cieco nato e la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Si tratta di scene complesse, rappresentate senza soluzione di continuità e in un registro monumentale.

L’altro sepolcro, come accennato, è noto come sarcofago «dogmatico», secondo una definizione ottocentesca. Si tratta sempre di un’opera di grande qualità anche se incompiuta nei dettagli e, per così dire, maggiormente allineata agli standard dell’arte costantiniana.

Oltre alla monumentalità, nel caso di quest’opera è rilevante anche il luogo del suo rinvenimento. Difatti fu trovato durante la ricostruzione della basilica di S. Paolo fuori le Mura, dopo l’incendio del 1823, lavorando alle fondazioni di uno dei piloni del nuovo ciborio. Si trovava dunque in una posizione privilegiata, nel presbiterio della chiesa, quasi a contatto con la tomba apostolica.

Tale collocazione non può essere quella originaria, relativa al momento del primo utilizzo, in quanto il livello a cui giaceva la cassa corrisponde a un rialzamento del presbiterio della basilica avvenuto alla fine del VI secolo, mentre il sarcofago è molto più antico. Esso poteva allora trovarsi, forse, già all’interno della basilica fondata da Costantino sul sepolcro dell'apostolo Paolo, dalla quale, alla fine del IV secolo, sarebbe stato trasferito nel maestoso edificio ricostruito dai tre imperatori, Teodosio I, Graziano e Valentiniano II, all’epoca dei papi Damaso e Siricio. Solo due secoli più tardi il monumentale sepolcro marmoreo sarebbe stato infine ricollocato nella posizione privilegiata, dove fu rinvenuto attorno alla metà dell'Ottocento.

Sin dall'inizio, la tomba doveva comunque ospitare una personalità di una certa rilevanza, alla cui committenza va probabilmente ricollegato anche il programma figurativo, molto complesso e articolato. Le scene che decorano la fronte del sarcofago sono per lo più quelle canoniche, relative ai miracoli di Cristo, alternate a episodi veterotestamentari, come quello di Daniele nella fossa dei leoni, e a racconti tratti da scritti apocrifi, come l’arresto di Pietro e il battesimo conseguentemente somministrato dall'apostolo ai suoi carcerieri. La scena su cui però più vale la pena soffermarsi è quella che ha fatto, a ragione, scorrere fiumi di inchiostro, relativa al racconto della Creazione. La creazione di Eva, in particolare, è mostrata come compiuta da tre personaggi, probabile allusione alle Persone della Trinità.

A partire dal Concilio di Nicea (325 d.C.), infatti, che è sicuramente di poco precedente alla realizzazione del sarcofago, la questione cristologica, relativa alla natura del Figlio, fu oggetto all'interno della Chiesa di forti discussioni teologiche, che ebbero notevoli ripercussioni anche sul piano politico. Proprio il dibattito seguito al Concilio di Nicea potrebbe aver dunque ispirato l'ideazione di questa scena, che ricorre solo nel sarcofago del Museo Pio Cristiano e, con alcune varianti, in un analogo esemplare conservato in Francia, al Musée Départemental Arles Antique.

Come dimostra il caso del sarcofago «dogmatico», nel Museo sono esposti non solo documenti di grande rilevanza artistica, ma anche importanti testimonianze relative alla vita dell'antica comunità cristiana, alla sua continua evoluzione e trasformazione. Lo vediamo bene in un’altra opera, presente da pochi anni in esposizione, sicuramente meno appariscente, ma di grande importanza storica: la cassa che contenne le reliquie dei santi Ippolito, Taurino, Ercolano e Giovanni Calibita.

Si tratta, in questo caso, di un sarcofago realizzato nel II sec. d.C. per una sepoltura «pagana» e solo successivamente sottoposto a modifiche per essere riutilizzato come reliquiario cristiano. Ci troviamo nella sezione finale del Museo, quella dedicata agli esiti estremi della scultura cristiana nel periodo alto medievale, quando trova piena diffusione la produzione di arredi liturgici destinati agli edifici di culto.

Il sarcofago in questione è decorato con una scena di ispirazione mitologica: amorini che trasportano armi, probabile allusione all’incontro degli amanti Marte e Venere. Lo scudo centrale sorretto da due amorini era occupato da un’iscrizione commemorativa del defunto. Nel IX secolo il sarcofago venne riutilizzato come reliquario nella chiesa di S. Giovanni Calibita, sull’Isola Tiberina, dove venne ritrovato attorno alla fine del Cinquecento. Rivelatrice della nuova funzione è l’iscrizione presente sullo scudo, rifacimento di quella originaria, nella quale si legge: «Qui riposano i corpi dei santi martiri Ippolito, Taurino, Ercolano e Giovanni Calibita. Il vescovo Formoso li collocò (in questo luogo)».

Vescovo di Portus prima di divenire papa, Formoso è passato alla storia per il cosiddetto «processo del cadavere». Accusato di una serie di abusi, una volta morto, Formoso fu riesumato, rivestito degli abiti pontificali, processato, condannato, mutilato e gettato nel Tevere.

Da vescovo di Portus, Formoso aveva dovuto fronteggiare le incursioni dei Saraceni che insidiavano le coste laziali e non solo, e pensò che fosse prudente ritirarsi dalla zona costiera. Di conseguenza, si ritiene che egli abbia spostato la sede episcopale portuenese sull’Isola Tiberina, costruendovi la chiesa di S. Giovanni Calibita, dove fece trasferire le reliquie dei martiri della propria diocesi, Ippolito, Taurino ed Ercolano.

In tale occasione chiese di farsi inviare da Costantinopoli, città con la quale aveva un profondo legame, anche le reliquie del monaco costantinopolitano Giovanni Calibita, che al tempo veniva erroneamente ritenuto di origine romana.

Il sarcofago, quasi perfettamente conservato, presenta solo alcune piccole lacune che non sono dovute all’usura del tempo, ma risultano probabilmente frutto di un intervento volontario: sono state difatti scalpellate tutte le zone pubiche degli amorini. Questa è una pratica non diffusa in Occidente, ma frequentemente attestata in Oriente al fine di esorcizzare immagini ritenute portatrici di valori negativi, perché idolatriche.

Non è raro trovare nelle regioni orientali del Mediterraneo statue che presentano sfregi a forma di croce sui volti, oppure i seni scalpellati. Forse, in questo caso, le zone pubiche vennero rilavorate nel momento in cui il sarcofago fu trasformato in reliquario, anche nell’intento di eliminare un aspetto, quello della nudità del corpo, profondamente connaturato alla cultura classica, ma ritenuto ormai scabroso per la sensibilità di chi aveva deciso di riutilizzare l’antico sepolcro.

IL MUSEO INFINITO
Un viaggio dentro i Musei Vaticani accompagnati da guide d’eccezione: i curatori responsabili delle sue collezioni
A cura di Arianna Antoniutti

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