Il coraggio di dire no all'Arte povera
Giuseppe Niccoli, il gallerista che comprese il valore e il potenziale dell’arte italiana ingiustamente trascurata e del passato prossimo come antidoto alle mode
Giuseppe Niccoli è stato un gallerista in un periodo in cui il mondo istituzionale e museale dell’arte faceva finta che la sua categoria non esistesse e che le opere esposte in prestigiose sedi pubbliche non fossero prima passate in meno aulici ambienti, scoperte, a proprio rischio economico, dai «mercanti» dei quali nei «templi» era meglio non parlare.
Ancora oggi non ha ripreso la sua attività l’ufficio vendite della Biennale di Venezia, attivo sino agli anni Sessanta e diretto per un lungo periodo da Ettore Gian Ferrari, il gallerista che trasmise la propria passione alla figlia Claudia. Eppure la Biennale non potrebbe esistere senza le gallerie che, ovviamente, pretendono di essere citate nei cartellini delle opere esposte.
Un po’ per volta anche i musei hanno (sebbene non del tutto) rimosso il tabù e oggi non mancano, in tutto il mondo, le mostre dedicate ai grandi mercanti che spesso hanno fatto la fortuna degli stessi musei (tra gli ultimi, proprio Claudia Gian Ferrari, con le sue donazioni a Milano e a Roma). Dicevamo di Niccoli perché fu tra i primi a battersi con convinzione per una più dichiarata collaborazione con le istituzioni pubbliche e private, dall’Ufficio Mostre del Comune di Milano alla Collezione Guggenheim di Venezia, trovando più ampio ascolto presso i musei giapponesi.
Ora la città di Parma, dove tutt’ora ha sede la galleria, celebra Giuseppe Niccoli come una gloria ben più che cittadina. Lo fa con una mostra aperta dal 19 settembre al 21 febbraio e organizzata dalla Fondazione Monteparma presso il suo Ape Parma Museo. Curata da Roberto e Marco Niccoli, i figli e successori del gallerista scomparso nel 2016 a 82 anni, la rassegna ripercorre le vicende «Attraverso le avanguardie» (come recita il titolo) di Giuseppe. «Visione e coraggio»: queste le prerogative che i curatori attribuiscono al gallerista presentandone in questa occasione gli artisti più rappresentativi.
Prerogative necessarie per capire che una grafica di Guttuso (siamo negli anni Settanta) non poteva costare più di un pezzo unico di Melotti, come ricordava lo stesso Niccoli; per rinunciare a cavalcare la tigre dell’Arte povera, nonostante la galleria, nata nel 1970, le fosse sostanzialmente coetanea: non piaceva, a un uomo che prima di essere gallerista era stato il fondatore di una libreria specializzata in libri d’arte («Attraverso le avanguardie», tra l’altro, era anche il titolo di una collana edita dalla galleria) frequentata con piacere da intellettuali e scrittori (quando la cultura in provincia non era per nulla provinciale), la «prepotenza» comportamentale di quegli artisti e forse anche del modo in cui andavano imponendosi sul mercato, sino al punto di egemonizzarne, in Italia, una buona parte.
Niccoli fu tra i primi a intraprendere un percorso oggi molto battuto da tanti suoi colleghi attuali, quello della riscoperta di artisti ingiustamente trascurati. Ma se oggi è relativamente facile attuare una strategia basata sia sulla caratura storica degli artisti in questione, sia sulla loro proposizione quali «radici» di modi e tendenze dell’arte d’oggi, sdoganata anche presso il grande pubblico, negli anni Settanta e Ottanta non era così scontato fare capire che Melotti e Colla erano due straordinari interpreti delle avanguardie.
Niccoli capiva che in un mercato stagnante come quello italiano la riscoperta del passato avrebbe potuto riattivare l’economia dell’arte: Balla, Afro, Sironi, il Movimento Arte Concreta... Non sono che pochi esempi dell’attività di un gallerista che credette nell’arte italiana quando le Italian Sale erano di là da venire. Capì che un versante colpevolmente trascurato dell’arte italiana era la scultura e, oltre ai già citati, dopo avere esordito con Berrocal, uno spagnolo adottato dall’Italia, svelò al collezionismo il valore di Marino Marini, Minguzzi, Manzù, Alik Cavaliere, Arnaldo e Giò Pomodoro, Cascella.
Ripropose Fontana, ma anche quello delle allora poco conosciute terrecotte della Via Crucis. Si aprì (anche in questo fu un antesignano) alla collaborazione con geniali colleghi, quali Luciano Pistoi, Plinio De Martiis (il fondatore di La Tartaruga di Roma, che lo aiutò a far conoscere la Pop art italiana in Giappone), oppure Arturo Schwarz, che aveva portato in Italia Duchamp, Man Ray e il Surrealismo.
Insegnò ai visitatori e ai collezionisti che spesso, come ama ricordare lo storico dell’arte e curatore Robert Storr, le derivazioni minori di un grande fiume sono spesso le più profonde: ed ecco, dagli Stati Uniti, arrivare artisti «nascosti» dalle ingombranti ombre di Pollock, Rothko & C., come Salvatore Scarpitta e Conrad Marca-Relli.
Sondò le profondità della pittura monocroma (di Scheggi e di Bonalumi, ad esempio) molto prima che questa diventasse una moda. Burri, Castellani, Dorazio e Schifano sono tra gli altri artisti che riappaiono ora nella mostra accompagnata da un catalogo (Silvana Editoriale), con testi di Bruno Corà, David Anfam, Marco Meneguzzo e Francesco Bonami. «Pochi collezionisti, molti acquirenti», disse una volta Niccoli, che invocava, inascoltato, l’istituzione di un Albo professionale dei galleristi, a proposito del mercato dell’arte moderna e contemporanea. Anche in questo era stato profetico.