Il caso Documenta conferma che il mondo dell’arte è malato di «correttezza politica»

Se l’arte non scandalizza più inventa di essere politicamente scorretta

Membri del collettivo Taring Padi allestiscono l’opera esposta a Documenta 15. Foto EPA-EFE/SASCHA STEINBACH
Franco Fanelli |  | Kassel

Per quel che vale, i ruangrupa, il collettivo di artisti indonesiani che, accusati di antisemitismo, sono riusciti a far riparlare di Documenta dopo due-tre edizioni di torpore mediatico, sono al terzo posto della Power 100, la classifica annualmente pubblicata da ArtReview. Al secondo c’è un’antropologa, Anna L. Tsing; al quarto un artista attivista come Theaster Gates; al sesto c’è Fred Mote, filosofo e poeta afroamericano. È, quest’ultimo, uno dei non pochi «thinkers» che costellano la classifica. Di collettivi di artisti ce ne sono altri due, uno australiano rigorosamente indigeno e uno inglese, quest’ultimo altrettanto rigorosamente «trasversale», in quando comprende registi, architetti, giornalisti e perfino avvocati.

Per trovare quelli che tengono in piedi la baracca (si fa per dire), cioè i Pinault, i Miuccia Prada, gli Hauser & Wirth, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo ecc. bisogna abbandonare la «zona Champions», per adottare una metafora calcistica, e scendere in zona Europa League, ma anche più in basso. I galleristi di Continua, per capirci, sono in zona retrocessione. I curatori? Pochi. La prima è Lucia Pietroiusti che guadagna il 13mo posto in quanto, rispetto ai decadenti Obrist & C., è la più vicina ai maîtres-à-penser della trasversalità, coloro che attualmente costituiscono l’élite radical delle arti contemporanee. Quelli, cioè, che devono dimostrare che l’arte contemporanea non è solo vile mercato per pochi ricchi o alcuni stravaganti insensibili ai reali problemi del mondo malato e in guerra, all’ambiente violentato e ai naufraghi in fuga dalla povertà.

Francesco Bonami, su «Il Foglio», ha ragione a dire che Hito Steyerl, l’artista ritiratasi da Documenta perché l’organizzazione non ha saputo far fronte alle accuse di antisemitismo che hanno colpito i curatori, avrebbe dovuto prendersela con questi ultimi e magari informarsi meglio prima di accettare l’invito. Ma Bonami sa anche che la pruderie della correttezza politica infesta il mondo dell’arte contemporanea e molti suoi «attori» in quanto è difficile accettare e fare accettare il fatto che l’arte è insieme merce e cultura. E, al di là delle folle ai botteghini di biennali e documenta, è in realtà roba per pochi, e non solo perché costa un sacco di soldi, ma perché la sua reale comprensione richiede una cultura specifica.

Il problema è, appunto, fronteggiare questa specie di corto circuito che negli ultimi vent’anni ha alterato l’intero ecosistema dell’arte: la nicchia dei tempi che furono è diventata prima un’abside, poi una basilica, poi una Chiesa nel senso non architettonico del termine. Una chiesa con i suoi raffinati teologi, i suoi sacerdoti, i suoi santi subito (ogni tanto qualche martire) e soprattutto molti, molti fedeli. Ma alla lunga se l’arte un tempo eretica è diventata religione di stato rischia di annoiare e di insospettire.

E non basta togliere i nomi delle gallerie dai cartellini alle biennali per tranquillizzare i più inquieti tra i fedeli. Bisogna parlare di cose vicine alla gente, essere «sociali», dimostrare che l’arte non è solo contemplazione ma lotta, ecc. Che i ruangrupa siano incompetenti come curatori è lecito sospettarlo; che gran parte dei primi piazzati nella citata Power 100 di storia dell’arte antica, moderna o recente ne sappiano poco è molto probabile. Il fatto è che sono terribilmente necessari alla stessa cattiva coscienza del sistema dell’arte tradizionale e del suo pubblico.

Che la politica sia nei cromosomi di Documenta lo dice la sua stessa storia. Non a caso nell’ultimo periodo si sono succeduti curatori molto sensibili all’argomento: Catherine David, Okwui Enwezor, la stessa Carolyn Christov-Bakargiev. Documenta è stato il palcoscenico per elezione di Joseph Beuys e, più tardi, del già citato Theaster Gates. Ma alla fine è sempre stato un luogo dove un gruppo di intellettuali ed artisti si rivolgeva a un pubblico per annunciare cose sulle quali il pubblico stesso era già perfettamente informato e d’accordo.

Ci voleva un dipinto con un maiale decorato con la stella di David esposto nel cuore della Germania per farci arrabbiare tutti, uscire sui giornali non specializzati e indignare quelli che piansero per «La vita è bella» di Benigni, che prese l’Oscar senza che nessuno, tranne lo storico Alessandro Barbero, facesse notare che i primi a liberare i campi di sterminio furono i russi e non gli americani come racconta il fine dicitore dantesco, mariano e hollywoodiano.

Irritarsi perché solo un atto d’ignoranza può portare alla curatela di Documenta un gruppo di artisti di una nazione non filoisraeliana è lecito. Non lo è, e anzi suona un po’ ipocrita, negare che tutto ciò sia in fondo funzionale a un sistema dell’arte che attraverso la trasversalità si lava la coscienza e fa nuovi proseliti. Un pezzo dell’intellighenzia che ereticamente porta lo scandalo nel cuore del tempio ricorda la celebre e triste vicenda degli affreschi «valdesiani» di Pontormo nel coro di San Lorenzo, ma l’analogia finisce là dove inizia la pochezza intellettuale e artistica dei protagonisti delle vicende di Kassel.

Diciamo allora che il ballon d’essai è sempre uno strumento fondamentale quando, in fondo, si devono fare i conti con l’amplificazione mediatica e la spettacolarizzazione, senza le quali la gente non paga il biglietto e non s’incuriosisce: di qui, ad esempio, anche le code indotte anche se non necessarie all’ingresso di certi padiglioni alla Biennale di Venezia. E la Power 100? Quasi ce ne stavamo scordando: al primo posto c’è, significativamente, un NFT.

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