I musei in Usa contro le «narrazioni coloniali ereditate»
A due anni dalla morte di George Floyd le discussioni sul razzismo si stanno trasformando in cambiamenti politici a lungo termine, mentre l’istituzione di un «Director of Interpretation» al Fine Arts Museums di San Francisco ha dato il la ad altri musei

Mentre in America ricorrono i due anni dall’assassinio di George Floyd, il direttore del Fine Arts Museums di San Francisco (FAMSF) ha invitato i musei americani e non a «confrontarsi con le narrazioni coloniali che abbiamo ereditato». Thomas P. Campbell ha dichiarato in un’intervista che i musei statunitensi «troppo spesso sostengono le narrazioni coloniali nei loro spazi».
Campbell, ex direttore del Metropolitan Museum of Art di New York, ha rilasciato queste dichiarazioni mentre il FAMSF annunciava la nomina di Abram Jackson, ex professore alla San Francisco State University, nella nuova posizione di «Director of Interpretation». In un’intervista Jackson ha dichiarato che il suo ruolo è quello di guardare alla collezione del museo «attraverso la lente dell’equità». In questo modo, «aiuterà ad accogliere i visitatori che altrimenti potrebbero sentirsi rifiutati, colpiti o afflitti dalla loro esperienza al museo».
Jackson dedicherà gran parte del suo tempo a capire come inquadrare le opere d’arte della collezione che hanno radici colonialiste. Inoltre, dice, esplorerà il modo in cui la riappropriazione artistica di insegne razziste può essere comunicata al meglio negli ambienti museali, prendendo ad esempio l’artista pop Kanye West che nel 2013 ha utilizzato la bandiera confederata durante il tour dell’album «Yeezus», contenente la canzone «New Slaves»; o ancora Patrick Kelly, il primo stilista nero americano a firmare un contratto di moda multimilionario, che ha spesso incorporato nei suoi disegni simboli razzisti come il «Golliwog». «I musei sono spazi sacri. Non c’è posto migliore al mondo per trovare il senso di un testo o di un’opera che potrebbe avere un sostrato razzista», aggiunge Jackson.
Il suo ruolo non sarà facile. I suoi colleghi della Tate Britain di Londra hanno ricevuto di recente critiche per la loro particolare presentazione dei dipinti satirici di William Hogarth, l’artista del XVIII secolo che ha raffigurato delle scene che oggi potrebbero essere considerate problematiche. Un importante critico britannico ha affermato che la mostra della Tate era una «wokeish drivel», [ovvero una scemenza da «woke»: aggettivo che significa «all’erta difronte alle discriminazioni razziali», Ndr] che «ha trascinato Hogarth nelle guerre culturali della nostra epoca».
Una storia problematica
«A dire il vero, i musei hanno una storia davvero problematica, dice Jackson. Ma agire consapevoli di questa storia ci aiuta a pensare a ciò di cui hanno bisogno i visitatori, con tutte le loro differenze».
Jackson a San Francisco sarà il primo « Director of Interpretation», ma il suo esempio virtuoso ha dato il la ad altri musei. Sono trascorsi due anni dall’uccisione di George Floyd a Minneapolis. I grandi disordini sociali e i cambiamenti strutturali che l’omicidio ha provocato continuano a riverberarsi; sempre più spesso, le discussioni più disparate intorno a questo tema si stanno trasformando in cambiamenti politici ampi e duraturi in tutto il settore pubblico.
«L’evento spartiacque di George Floyd, nel bene e nel male, ha messo in moto molte istituzioni. Ha portato i musei a ripensare il loro approccio a questioni come le assunzioni, i ruoli e le politiche. Non è stato solo un momento di riflessione. Penso che abbia avuto un impatto sulla nostra coscienza collettiva e ci abbia permesso di pensare a come la razza e il razzismo abbiano un impatto su tutti noi e a cosa possono fare le istituzioni per cambiare le cose», afferma Jackson.
Il mese scorso, lo Smithsonian Institution ha annunciato che adotterà nuove politiche di restituzione. In passato, i musei si sono basati su precedenti legali per determinare se, come e quando gli oggetti della loro collezione dovevano essere rimpatriati al legittimo proprietario. Ora lo Smithsonian afferma che i casi di restituzione si baseranno principalmente su considerazioni etiche, piuttosto che legali.
La nuova politica consentirà formalmente ai musei dello Smithsonian di restituire facilmente e in modo proattivo gli oggetti delle loro collezioni notoriamente rubati, saccheggiati o acquisiti con mezzi illeciti. Oltre allo Smithsonian, numerosi musei di alto profilo negli Stati Uniti hanno scelto di avviare iniziative sulla decolonizzazione nei loro public programs, tra cui l’Abbe Museum di Bar Harbour nel Maine e il Museum of Us di San Diego, situato nelle terre ancestrali della nazione Kumeyaay.
Oltre agli Stati Uniti, l’Australian Museums and Galleries Association è impegnata in un progetto decennale di «Road Map» indigena. Il Musée d’Ethnographie de Genève, in Svizzera, si è posto l’obiettivo di decolonizzare completamente il museo entro il 2024. Il Pitt Rivers Museum dell’Università di Oxford, ha annunciato nel 2020 una «revisione interna delle esposizioni e della programmazione da una prospettiva etica». Mentre si è già provveduto alla rimozione delle «Shuar Tsantsa», la collezione delle cosiddette «teste rimpicciolite» venerate dalle popolazioni indigene Shuar e Achuar dell’Ecuador, un tempo considerate come la raccolta più rinomata del museo.