400 numeri fa c’era ancora il Muro di Berlino e invece dello zenzero la gente idolatrava la rucola, i musei non erano ancora i santuari del fanatico pellegrinaggio turistico di massa, tra case d’asta e gallerie si scaramucciava senza spargere troppo sangue, i galleristi non erano ancora giugulati dal fair system, sui rotocalchi ci finivano Guttuso e Migneco e non i loro pur coevi Beuys e Pistoletto e il curatore era una grigia figura attiva nella gestione di aziende fallite; non elargiva mostre, ma al massimo offriva un caffè al depresso padrone del Mocambo nella canzone di Paolo Conte.
L’arte contemporanea era una nicchia per pochi stravaganti e gli antiquari non sospettavano che un giorno i loro clienti li avrebbero traditi per Jeff Koons. Di biennali ce n’erano una più una (Venezia e San Paolo) e non una al mese. Nel maggio 1983, quando in un appartamento torinese adibito a redazione ticchettavano macchine da scrivere e il telex (simile alla telescrivente che trasmette notizie di borsa alla famiglia ...
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