Henry the VIII mostra il Black Side della storia
Al Whitney Museum una retrospettiva di Henry Taylor, che «offre una profonda esplorazione dei conflitti interiori legati all’identità afroamericana attraverso l’espressione artistica e musicale di figure iconiche che hanno lasciato un’impronta sulle generazioni future»

Il 4 ottobre il Whitney Museum of American Art ha inaugurato «B Side», la retrospettiva di Henry Taylor (1958), aperta fino al 28 gennaio 2024. Con un linguaggio pittorico straordinariamente diretto, l’artista dipinge l’esperienza di vita quotidiana statunitense vissuta dalla prospettiva della comunità Black in cui è cresciuto. Ai ritratti di familiari, amici, vagabondi si alternano quelli di figure politiche, campioni sportivi e personaggi celebri, come Barack e Michelle Obama o Jayz, che sono diventati dei simboli nella storia dei neri negli Stati Uniti.
Il titolo «B Side» ha un duplice significato: da una parte si riferisce al lato B di un vinile, su cui viene incisa la canzone più sperimentale alla quale di solito si presta meno attenzione; dall’altra, allude al «Black Side of History». Taylor possiede la grande abilità di alleggerire i suoi quadri, che sono composti di pochi elementi, ma carichi di questioni razziali e riferimenti alla storia dell’arte.
Nella prima opera che si incontra entrati in mostra, «Getting it Done», (2016), si vede il ritratto di un uomo mentre si fa fare le trecce da una signora fuori la porta di casa. Se il ritratto anticamente era riservato a sovrani, imperatori ed esponenti dell’aristocrazia, con le loro acconciature preziose e i gioielli, i soggetti scelti da Taylor non hanno bisogno di posizioni imperiose ma sono celebrati per la loro umanità. La presenza viscerale del soggetto è aumentata dall’inquadratura ravvicinata e dallo sguardo profondamente assorto che sembra contenere il mondo dentro di sé. «It’s about respect, because I respect these people. It’s a two-dimensional surface, but they are really three-dimensional beings» («Si tratta di rispetto, perché io rispetto queste persone. È una superficie bidimensionale, ma in realtà sono esseri tridimensionali», ha dichiarato l’artista).
Taylor è nato a Ventura e cresciuto a Oxnard, una città a nord di Los Angeles. Ultimo di 8 figli, si faceva chiamare ironicamente Henry the VIII, sua mamma lavorava come donna delle pulizie e suo padre come pittore per il governo. Prima di intraprendere la carriera artistica, Taylor ha lavorato per dieci anni come tecnico psichiatrico al Camarillo State Hospital, dove ha iniziato a interessarsi alle emozioni umane disegnando i volti dei pazienti. Solo più tardi si è iscritto al California Institute of Art, dove si è laureato all’età di 37 anni. Il trasferimento a Los Angeles ha contribuito alla sua crescita personale e professionale, entrando in contratto anche con artisti come Noah Davis o Kahil Joseph, ma ci sono voluti ancora dieci anni prima che le gallerie cominciassero a notare il suo lavoro.
In «See Alice Jump» (2011) è raffigurato il ritratto di Alice Coachman, la prima donna nera a vincere una medaglia d’oro alle Olimpiadi nel 1948, mentre salta, sopra i palazzi di una città. Cresciuta nel Sud degli Stati Uniti negli anni della segregazione razziale, l’artista vuole celebrare la sua capacità di guardare in alto e superare gli enormi ostacoli di discriminazione sociali ed economici. La pennellata fluida e immediata è evidenziata dalle gocce di tempera sui palazzi.
Tra i ritratti dei familiari, spicca quello del fratello Randy in «Untitled» (2002). Combinando insieme passato e presente, l’artista riflette sul passato del fratello come ex membro del movimento rivoluzionario delle Black Panthers, e sul tempo presente in quanto addestratore di cani in Texas. Qui lo si vede in piedi di fronte a un microfono, come se stesse per tenere un discorso, mentre dietro aleggia l’ombra di una pantera. Sullo sfondo, dipinta in maniera fitta, con grande cura ai dettagli, figura la casa immersa nel bosco.
In «Untitled» (2022), una bambina con una maglietta mimetica cammina per strada maneggiando quello che sembra un aeroplanino di carta. Dall’altra parte della strada, si intravede quasi sotto terra la scritta Chevron, mentre in alto ci sono una colomba bianca e una villa lussuosa sulla collina. Chevron è la compagnia petrolifera statunitense basata in California. Qui si nota la grande capacità di sintesi di Taylor che, pur procedendo in maniera intuitiva, dipinge pochi elementi ma incisivi, per riflettere sul tema della segregazione razziale e disuguaglianza economica, eredità del colonialismo e dell’apartheid. Con questo quadro Taylor sembra riprendere il discorso iniziato 60 anni fa a Washington da Martin Luther King, che criticava l’economia capitalista americana per essersi arricchita lasciando completamente indietro i poveri e gli afroamericani. Per King l’integrazione e l’uguaglianza non consistevano solo nella condivisione degli stessi spazi, ma nella condivisione del potere.
Taylor dipinge spesso i suoi familiari e le persone vicino alle quali è cresciuto. Nel 1944, i suoi genitori si trasferirono dal Texas alla California, durante la Grande Migrazione che tra il 1940-70 vide milioni di neri americani lasciare il Sud per sfuggire da povertà e razzismo, in cerca di lavoro. Le loro esperienze e le storie che ha ascoltato da loro crescendo hanno instillato in Taylor una sensibilità per le correnti culturali e politiche che hanno influenzato la sua comunità. Un altro bellissimo ritratto di famiglia è «The Love of Cousin Tip» (2017). Ognuno dei soggetti ritratti sembra avere personalità ed emozioni diverse. Il protagonista assoluto è lo zio, dipinto da una prospettiva che lo fa apparire più in avanti rispetto ai membri della sua famiglia, che è pronto a difendere, con il pugno chiuso e lo sguardo feroce.
Forse l’opera più impressionante è «The 4th» (2012-17): un dipinto monumentale composto da due pannelli verticali che celebra il giorno dell’Indipendenza americana. Il pannello superiore presenta l’imponente figura di una donna nera con una maglietta bianca; in una mano, ben curata, tiene una patatina fritta, e nell’altra una forchetta da barbecue. Lo sguardo è nascosto dall’ombra del cappello, che nonostante ciò sembra indirizzato verso lo spettatore con un’intensità quasi inquietante. Alle sue spalle si vedono uno spazio vuoto all’interno di quattro mura e, sopra, la sagoma della testa di un bambino. Come lo spettro di una mancata presenza, che non riesce a sfuggire dai pensieri neppure in un giorno di festa. La parte inferiore del dittico raffigura una griglia riempita con vari pezzi di carne e pollame. La donna che si innalza in alto nel quadro sembra incarnare una forza primordiale. Come ha osservato la critica d’arte Tatiana Istomina: «Sebbene il suo aspetto sia radicato nella vita quotidiana contemporanea, le sue dimensioni, la postura e gravità della figura la collegano a simboli senza tempo di fertilità e potere, come una venere del paleolitico o una Madonna rinascimentale».
Infine, è importante menzionare un’opera site specific presente in una stanza più appartata del museo, sulle cui pareti Taylor ha disegnato tracce della storia della schiavitù, partendo dall’Africa occidentale alle Grandi Migrazioni e culminando con un’immagine gigante di Whitney Houston alata. Di fronte a lei, dalla parte opposta del muro, Taylor ha riscritto a mano il testo della canzone Dna, con cui Kendrick Lamar è entrato nella storia come il primo rapper a vincere il premio Pulitzer nel 2017. Che cosa hanno in comune questi personaggi? Sembra che nonostante il successo planetario per le loro abilità, quasi divine, questi artisti si confrontino con una condizione identitaria che è stata descritta dal sociologo afroamericano W.E.B. Du Bois in termini di doppia coscienza. Nel libro pubblicato nel 1903, The Souls of Black Folks, Du Bois descrive questa condizione come specifica della caratterizzazione della soggettività afroamericana. Una sensazione di conflitto interiore, di appartenenza e non appartenenza alla storia e alla cultura degli Stati Uniti. Un’appartenenza strutturalmente problematica, perché segnata dalla schiavitù e dalla segregazione. «L’esito della formazione di una soggettività costretta a guardarsi sempre attraverso gli occhi degli altri».
Du Bois la descrive come una patologia che porta sofferenza, ma anche come un dono, che permette di vedere cose che altri non vedono, uno sguardo obliquo sulla propria condizione. Il testo della canzone di Lamar infatti parla della difficoltà di definire il concetto di Blackness, includendo sia gli stereotipi di «sesso, soldi e omicidi» che si attribuiscono agli afroamericani come parte del loro Dna, sia recuperando la sua identità africana, celebrando la fedeltà e regalità nel suo Dna. Non a caso, sopra al testo è disegnata una piccola corona, come quella usata da Jean-Michel Basquiat. E nella parete accanto, un disegno della moschea di Djenné a Mali, una delle città più antiche dell’Africa subsahariana e uno dei principali centri di commercio dell’oro. Taylor offre una profonda esplorazione dei conflitti interiori legati all’identità afroamericana attraverso l’espressione artistica e musicale di figure iconiche che hanno lasciato un’impronta sulle generazioni future.