Gli sfregi e le carezze di Nicola Samorì

A Palazzo Fava pennelli usati come rasoi per sgozzare e accecare le vergini, estasi mistiche, fili d’oro e materia in decomposizione

Nicola Samorì, «Lucia», 2019. Courtesy Genus Bononiae
Valeria Tassinari |  | Bologna

Circa 80 opere (tra dipinti, disegni e sculture) e una regia raffinatissima curata dall’artista stesso mettono in scena in un perturbante allestimento gli «Sfregi» di Nicola Samorì. Ambientata nelle sale dello storico Palazzo Fava (fino al 25 luglio), questa prima antologica italiana dell'artista, curata da Alberto Zanchetta e Chiara Stefani, si configura come un irripetibile gioco di sguardi, un cercare legami attraverso una relazione intima e spesso spietata con lo spirito del luogo.

La visita è, dunque, un’esperienza complessa, che sposta la dimensione temporale su un terreno incerto, e invischia in una trama diafana ma serrata di richiami e respingimenti reciproci tra le opere contemporanee e quelle antiche, dai preziosi fregi affrescati nelle stanze (le storie di Giasone e Medea dei Carracci) ai capolavori selezionati dalla collezione della Cassa di Risparmio di Bologna, tra i quali la «Maddalena penitente» di Canova.

La cifra all’apparenza anacronistica di Samorì si rivela qui come una lettura sorprendentemente lucida del presente. Tragica, barocca tra eros e viscere, poi improvvisamente eterea tra farfalle e fiori fragilissimi, la sequenza delle opere comprende pennelli usati come rasoi per sgozzare e accecare le vergini, estasi mistiche, fili d’oro e materia in decomposizione: palpiti estremi di vita, tirati fuori dai corpi, prima accarezzati da una tecnica di bellezza accademica, poi squarciati, violati, erosi e scarnificati, torturati attraverso un metodo di rimozione della pellicola pittorica sofisticato e crudele come quello di un Apollo alle prese con la pelle di Marsia.

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