Gli argomenti contro il ritorno dei marmi in Grecia non sono più sostenibili

Nonostante le origini greche, Eleni Vassilika ha sostenuto la rivendicazione britannica dei marmi del Partenone: ecco perché la sua posizione è cambiata

I marmi del Partenone al British Museum. Foto Kurt Thomas Hunt
Eleni Vassilika |

Nata da genitori greci e cresciuta come tale altrove, sono sempre stata considerata di un’altra etnia. Decenni dopo, nel compilare un modulo sull’uguaglianza, mi sarebbe stato detto che il mio passaporto britannico non mi qualificava come «White British» ma come «Any other ethnic background». In quanto greca, tutti si aspettavano che la mia posizione fosse quella di restituire i marmi del Partenone alla Grecia, una posizione per me non condivisibile essendo una professionista museale.

Se le sculture in marmo del Partenone, sottratte all’inizio del XIX secolo, dovessero tornare indietro, che cosa impedirebbe ad altri Paesi di reclamare il proprio patrimonio antico? Su quali basi tutto ciò che è straniero può rimanere nei musei occidentali? Come potrebbero i musei di concezione occidentale presentare le antichità? A conferma di questo scenario, la Grecia, l’Italia, l’Egitto e la Turchia chiedono ripetutamente la restituzione di alcune delle loro antichità da dipartimenti museali che possono annoverare tra i 30mila e i 90mila oggetti, per lo più nei depositi. La Turchia (proclamata repubblica nel 1923) considera patrimonio nazionale le antichità dell’età del Bronzo, greche, romane, bizantine e successive rinvenute all’interno dei suoi confini.

Più di una volta, in occasione di matrimoni e feste con amici greci, mi è capitato di essere interrogata sulle sculture del Partenone provando un certo imbarazzo. Ho interpretato il pensiero greco come una sgradevole manifestazione di nazionalismo. La visita in lacrime di Melina Mercouri, all’epoca Ministro della Cultura, alla galleria Duveen del British Museum nel 1983 è stato solo un altro stratagemma per assecondare il fervore nazionalista.

Nel 1999 il giornalista Auberon Waugh scrisse che il candidato sindaco Ken Livingstone avrebbe restituito i marmi «a degli stranieri con le gambe corte e il sedere peloso, che non hanno nulla a che fare con gli antichi ateniesi, ma che si dà il caso occupino lo spazio, discendendo dagli invasori turchi nel corso dei secoli».

Le società professionali e i musei hanno via via adottato il divieto di acquisire, prendere in prestito o pubblicare oggetti che hanno lasciato il loro Paese d'origine dopo la Convenzione dell’Unesco del 1970 per proibire e prevenire l’importazione, esportazione e trasferimento di proprietà illecite di beni culturali. Così gli studiosi hanno rivolto la loro attenzione agli assemblaggi precedenti al 1970 di materiale antico ed etnografico delle popolazioni indigene.

La rivalutazione degli studiosi ha fornito spunti storici sulla superiorità imperiale e coloniale e sulle rivendicazioni considerate indegne da parte dei popoli conquistati nei confronti del loro patrimonio artistico o di un’identità nazionale. Questa presunzione ha spinto Napoleone a saccheggiare l’arte in Italia, gli europei a depredare l’Africa e la Cina, e l’Iraq a spogliare i musei del Kuwait (prima che i suoi fossero saccheggiati). Nel frattempo però siamo diventati più esperti e più sensibili al modo in cui il patrimonio culturale è entrato nei musei occidentali.

I marmi del Partenone non rappresentano un bottino di guerra, ma piuttosto un patrimonio artistico nazionale greco sottratto nel 1801-03 e nel 1810. Le argomentazioni contro la loro restituzione si riducono essenzialmente a: la pretesa britannica di ottenere il permesso dai governanti ottomani di prenderli; la discutibile etnia greca e la valutazione patriarcale dell’incapacità greca di prendersene cura; la preveggenza britannica nel salvarli; il fatto che la loro restituzione non li ricongiungerebbe all’architettura, ma li sposterebbe da un museo all’altro; e l’espediente legale grazie al quale non possono essere venduti per acquisire fondi (sebbene la legislazione lo renda possibile per i bottini nazisti).

L’avvocato Geoffrey Robertson QC ricorda che Elgin ha presentato erroneamente al Commons Select Committee del 1816 il suo permesso di disegnare e prendere i calchi come un mandato legale per rimuoverli dal tempio. Non ha mai «comprato» le sculture dagli occupanti, quindi i marmi non sono mai stati suoi da poterli vendere. L’argomentazione di Elgin di averli salvati dalla distruzione non poteva funzionare nel diritto inglese dove un ladro non può evitare la condanna sostenendo di essersi preso cura dei beni rubati meglio del proprietario.

I diritti umani internazionali, resi più efficaci dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni (2007), riconoscono il diritto di una comunità al proprio patrimonio culturale. La Grecia è stata riconosciuta come nazione indipendente nel 1832 e ha presentato ripetute richieste di restituzione dei marmi; il suo Servizio Archeologico è stato creato nel 1835. Gli argomenti contro la restituzione dei marmi non sono più sostenibili. Dal 2009 lo spettacolare Museo dell'Acropoli, con la sua vista diretta sul Partenone, contestualizza la decorazione scultorea in un modo che il British non potrà mai fare. Come il tesoro di Sutton Hoo rappresenta il patrimonio culturale inglese, così i marmi del Partenone rappresentano il patrimonio culturale della Grecia. Repliche fedeli possono sostituire in modo affidabile gli originali nella galleria Duveen del British Museum.

Eleni Vassilika è stata curatrice delle antichità del Fitzwilliam Museum (1990-2000), direttrice e amministratore delegato del Roemer-und Pelizaeus-Museum (2000-05) e direttrice del Museo Egizio di Torino (2005-14)

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