Gian Maria Tosatti: «Quadriennale, Biennale e MaXXI in sinergia»

«Serve una cabina di regia per il sistema dell’arte italiana contemporanea»: così l’artista e direttore artistico della Quadriennale, impegnato nel programma culturale 2022-24

Gian Maria Tosatti. Foto Severina Venckute
Guglielmo Gigliotti |  | Roma

Un anno fa Gian Maria Tosatti (Roma, 1980) presentava, in qualità di direttore artistico della Quadriennale di Roma, il programma di attività culturale dell’istituzione nel triennio 2022-24. Programma che, nelle previsioni del Cda della Quadriennale presieduto da Umberto Croppi, doveva vitalizzare l’intervallo temporale tra l’evento espositivo che ha avuto luogo nel 2021 e quello che prenderà corpo nel 2025 (dunque quando Tosatti avrà già lascito l’incarico).

Chiediamo conto all’artista-curatore, che ha prescelto Napoli alla nativa Roma come luogo di vita, e che ha rappresentato l’Italia alla 59ma Biennale di Venezia, dei risultati e delle riflessioni scaturiti da questo primo anno di attività.
Prima cosa: soddisfatto?
Direi fin troppo. Abbiamo fatto anche di più di quanto avevamo messo in cantiere. L’unico vero limite è la capacità fisica della struttura e dei suoi collaboratori che, da un anno e mezzo, stanno lavorando a pieno regime, con entusiasmo e grande dedizione. Io li ringrazio, con in testa il nostro bravissimo direttore generale Ilaria Della Torre, ma i primi a farlo con me sono gli artisti, testimoniandoci che il nostro modo di ascoltarli è «diverso».

Il programma è costituito da studio visit di quattordici curatori, da una rivista trimestrale («Quaderni d’arte italiana»), da una rete interuniversitaria per la promozione di tesi di dottorato sull’arte contemporanea, da borse di studio per tesi di dottorato sull’arte digitale, da un ciclo espositivo di minipersonali a Palazzo Braschi di artisti affermati e non, da un festival annuale, da lezioni di Ludovico Pratesi su singole figure dell’arte degli ultimi venti anni, lezioni rivolte alla comunità degli Amici della Quadriennale. Quale idea di Quadriennale ha voluto esprimere con questa articolazione di eventi, studi e confronti?
Ha dimenticato l’archivio e il programma di mostre internazionali per la promozione dell’arte italiana. Attualmente abbiamo Roberto Cuoghi con una grande antologica al Friedricianum di Kassel. Nel 2023, ma non ne posso parlare ancora, avremo due grandi collettive in Oriente, una personale in Sud America e sosterremo l’arte italiana in una delle principali biennali del mondo. Ma, nei fatti, dietro tutto questo non c’è un’«idea di Quadriennale», c’è piuttosto la volontà di restituire allo Stato un’istituzione che lavori nella pienezza dei suoi compiti statutari e che sia in grado di essere un riferimento per altre istituzioni internazionali che vogliano dedicare attenzione all’arte italiana.

Le istituzioni pubbliche dell’arte fanno quanto necessita per sostenere il contemporaneo in patria e all’estero?
Le istituzioni lavorano, non lo si può negare. Ma ritengo che molte disfunzionalità del nostro sistema siano dovute a una scarsa organicità. Porto un esempio. Ci sono tre istituzioni nazionali che si occupano dell’arte contemporanea. Una è un museo, il MaXXI, che ha il compito di consolidare la storia dell’arte del XXI secolo attraverso la collezione. Le altre due sono strutture di ricerca, la Biennale per l’arte internazionale e la Quadriennale per l’arte italiana. Queste tre istituzioni dovrebbero lavorare in sinergia. Fanno cose diverse e dovrebbero completarsi. Le scrivanie dei loro direttori dovrebbero essere messe in circolo dentro un’unica stanza, una cabina di regia. E da questo anello più alto dovrebbe discendere una rete simile di strutture regionali e comunali, ordinate come organi di un corpo unico e interdipendente.

Che cosa risponde a coloro che giudicano esile la sua programmazione triennale per la Quadriennale?
Io credo che siano i numeri e i dati a rispondere. Prima lei ha elencato molti progetti in corso. A occhio direi che abbiamo implementato dell’800% le attività dell’istituzione. Però, se sostenuti, possiamo certo crescere ancora.

Lei è artista, giornalista, curatore, e anche uomo di teatro: come definirebbe il suo ruolo nell’arte italiana d’oggi?
Direi che sono semplicemente un artista.

L’arte sonda il futuro o aiuta a capire meglio il passato?
L’arte è uno strumento. Ci si guarda dentro per vedere. Sta al singolo spettatore decidere se puntarla in avanti o indietro.

Il successo che ha avuto in questi ultimi anni aiuta la sua arte o la grava di impegni?
Cresco assieme al mio lavoro. Mi sembra che questi vent’anni abbiano disegnato una linea abbastanza coerente.

Perché ha scelto di vivere a Napoli?
A Napoli non esistono solisti. Napoli è un’orchestra. Di tanti altri artisti spesso nemmeno sai da dove vengano. I napoletani (Mario Martone, Pietro Marcello, Elena Ferrante, Toni e Peppe Servillo…) invece, sono napoletani prima di essere il loro nome e cognome. E io ho scelto di suonare in un’orchestra. Perché la fama di uno non conta niente. È partecipare a una civiltà che fa la differenza.

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