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Fuoco messo a fuoco

Chiara Coronelli

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«La fotografia in guerra è davvero una nuova partenza, molto più del carro armato o dell’elmetto d’acciaio», così si legge in un articolo apparso nel dicembre del 1918, su «Vanity Fair», e firmato da Henry A. Wilsdon, capitano della Raf. Il progresso tecnico a ridosso della Grande Guerra, con la produzione di macchine studiate appositamente per le riprese aeree, gioca un ruolo fondamentale nella strategia bellica. Siamo agli esordi della moderna fotografia di guerra e all’inizio del percorso di «Questa è guerra! 100 anni di conflitti messi a fuoco dalla fotografia», rassegna che sarà inaugurata il 28 febbraio a Padova, a Palazzo del Monte di Pietà (fino al 31 maggio, a cura di Walter Guadagnini, catalogo Marsilio con testi del curatore e di Ilaria Speri).

La mostra, la più importante realizzata sinora in Italia sul tema, racconta un secolo di guerre attraverso 400 immagini che intersecano ordine cronologico e tematico, seguendo l’evolversi della rappresentazione dei conflitti e del nostro sguardo su di essi. La prima guerra mondiale ci arriva con i nuovi mezzi di combattimento, con le composizioni quasi grafiche del terreno ripreso dall’alto, e persino con le foto realizzate dagli stessi soldati o inviate a loro dalla famiglia. Un risvolto privato della storia, che si ritrova anche nelle venti istantanee che la principessa Anna Maria Borghese scatta con la sua Camera Box Kodak. La guerra civile spagnola, la prima propriamente fotografica, passa sia nell’obiettivo dei combattenti sia in quello dei professionisti.

Prendono forma icone come quella dell’uccisione del miliziano di Robert Capa, qui esposto insieme alla repubblicana che si addestra sulla spiaggia ripresa da Gerda Taro. E intanto si affaccia il mito del fotoreporter, che si imporrà nel secondo conflitto mondiale, qui documentato attraverso la città di Colonia ripresa da August Sander prima e dopo i bombardamenti; i soldati austriaci che Ernst Haas vede rientrare in una Vienna in rovina; i campi profughi di Henri Cartier-Bresson; la distruzione di Dresda e Hiroshima; e ancora nelle immagini di Eugene Smith, Evgenij Chaldej, Bill Brandt e del pressoché inedito giapponese Tadahiko Hayashi.

Un’intera parete accoglie i funghi atomici delle sperimentazioni americane degli anni Cinquanta, per poi passare alle donne di Marc Garanger sullo sfondo dello scontro franco-algerino; fino al Vietnam, considerata l’ultima guerra fotografica, filtrata dagli sguardi critici di Don McCullin, Eve Arnold, Philip Jones Griffiths. Ci si avvicina man mano al presente, tra ex Jugoslavia, Medio Oriente, Afghanistan, Iraq, Africa, fino all’attacco al World Trade Center e quello al Terrore: guerre dove la televisione avanza, con la sua estetica da videogioco, verso l’esclusiva della presa diretta sugli scontri, lasciando all’immagine fissa il compito di una riflessione meno immediata. Tanto che la linea espositiva si stacca dal reportage per rivolgersi ad approcci più decisamente artistici.

Ecco la desolazione della Beirut di Gabriele Basilico; i tableaux tragici di Luc Delahaye; le torri di avvistamento israeliane di Taysir Batniji, che sembrano uscite da un corso dei Becher; l’Ucraina in rivolta di Boris Mikhailov; il rosa psichedelico che colora il Congo devastato di Richard Mosse; le basi militari americane sparse per il mondo e «scoperte» da Mishka Henner via Google Earth, fino al progetto appositamente realizzato da Adam Broomberg & Oliver Chanarin, artisti che hanno fatto della guerra e della sua rappresentabilità il tema dominante del loro lavoro.

Chiara Coronelli, 17 febbraio 2015 | © Riproduzione riservata

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