Fotografia, pubblicità, desiderio: il potenziale persuasivo delle immagini in mostra a Los Angeles
Da Victor Burgin a Barbara Kruger, passando per Roe Ethridge e Sandy Skoglund: il LACMA di Los Angeles presenta la mostra «Objects of Desire: Photography and the Language of Advertising»

La storia della fotografia è legata sin dagli albori a quella di altri codici visivi, non necessariamente appartenenti all’olimpo delle belle arti. Anzi, spesso dal dialogo con la produzione visiva vernacolare e commerciale sono nate le più originali innovazioni artistiche. Già nel 1990 il MoMA con la storica mostra «High and Low: Modern Art and Popular Culture» proponeva una ricognizione dell’espansione dei linguaggi artistici per mezzo dell’influenza di stili e pratiche mutuati dalla cultura consumistica di massa.
E non a caso, tra i vari ambiti di influenza presi in considerazione c’era la pubblicità, definita nel catalogo dell’esposizione «grande modellatrice della coscienza e fabbricatrice del mito nelle nazioni occidentali del nostro secolo», oltre che «macchina dei sogni dell’economia capitalista». Una macchina che non poteva non accorgersi dello straordinario potenziale delle immagini fotografiche, della loro capacità di creare finzioni molto più realistiche e seducenti di quelle ottenute con disegni e illustrazioni.
La mostra «Objects of Desire: Photography and the Language of Advertising», presentata al LACMA di Los Angeles fino al 18 dicembre, diventa allora fondamentale per ricostruire questa conturbante relazione visiva e per approfondire uno dei fenomeni sociali e visivi più pervasivi di sempre. «Ovunque guardiamo (nel mondo digitale e nella vita reale) siamo spinti a pensare, agire, e comprare, scrive la curatrice Rebecca Morse nel catalogo della mostra. […] Il linguaggio della pubblicità viene compreso visivamente e facilmente; avvolge la nostra mente e ci attira con le sue promesse».
Il sodalizio tra fotografia e pubblicità finisce negli anni per correre sul filo del reciproco interesse, non senza però aver prima attraversato qualche difficoltà, come racconta ancora Rebecca Morse nel catalogo: «I primi crossover degli artisti all’interno della pubblicità o di altri ambiti commerciali nei primi anni del XX secolo venivano generalmente visti in maniera critica, spesso da altri professionisti, come a suggerire che la fotografia artistica dovesse avere solo un aspetto, un modo di esistere che dimostrasse che era ad un livello superiore rispetto alle imprese popolari o amatoriali. Tuttavia, quando gli artisti durante gli anni ’70 iniziarono a rifotografare, appropriarsi, citare e simulare nei propri lavori i prodotti visivi della cultura popolare, tra cui le pubblicità, le immagini editoriali, il fotogiornalismo e i film, queste immagini furono ricontestualizzate, rimosse dalla loro posizione originale, e installate nelle gallerie e nei musei. Occhi critici si posavano su di esse, valutandole; gli artisti iniziavano ad esaminare cosa queste immagini facevano, come si presentavano ai nostri occhi, e, nel caso della pubblicità, come riuscivano a spingerci al consumo. Questo sfaldamento dei confini tra fotografia commerciale e artistica ha schiuso il medium, e la fotografia è esplosa con il suo potenziale artistico».
Il percorso espositivo è organizzato in sei temi: Product and Color Photography, The Magazine, Image and Text, Scale, Stock Photography e Humor, e presenta il lavoro di 34 artisti, tra cui Adbusters, Victor Burgin, Sanja Ivecovic, Roe Ethridge, Barbara Kruger, Sandy Skoglund e Mitchell Syrop, solo per citarne alcuni. Molti di questi autori hanno un passato (e a volte anche un presente parallelo) da fotografi commerciali, ma ciò che li accomuna maggiormente è la volontà di travalicare la concezione di fotografia come linguaggio oggettivo e referenziale per esplorarne tutte le possibilità.
«Questa mostra esplora la relazione spesso trascurata tra fotografia commerciale e artistica, ha dichiarato Rebecca Morse, e pone al centro la fotografia commerciale, esaminando i casi in cui gli artisti hanno imitato il suo aspetto, si sono appropriati dei suoi contenuti, hanno adottato i suoi metodi di distribuzione, e in generale, hanno utilizzato quello che storicamente caratterizzava la tendenza della fotografia al servizio del commercio».
Gli autori in mostra indagano il potenziale persuasivo delle immagini, la loro capacità di generare e costruire il desiderio nell’osservatore, il loro ruolo all’interno della contemporanea società dei consumi. E lo fanno con modalità diverse, nelle quali emerge a volte un atteggiamento più spiccatamente critico e politico, che in alcuni casi si avvicina al media attivismo, e a volte uno sguardo più ironico, surreale e patinato.
Sempre nel catalogo di «High and Low», la pubblicità veniva tratteggiata come una rivale temibile dell’arte, in quanto intenzionata a catturare ed utilizzare per i suoi scopi il potere dell’immagine. Ma come spesso accade, è proprio nel confronto e nella contaminazione la chiave per comprendere, demistificare e sovvertire questi complessi rapporti, per poi lasciarsi, ancora una volta, sedurre da queste immagini. Come ha dichiarato nel 1980 Larry Sultan al San Francisco Magazine a proposito del modo in cui vengono confezionate e presentate le immagini pubblicitarie (e spesso anche le notizie), «non le guardi criticamente, ma semplicemente ci caschi dentro, come una bella tazza di caffè caldo.»