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Ex Whitney ora Met Breuer

Julia Halperin

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Un’altra sede per una «nuova» contemporaneità

Mai come oggi ci sono stati a New York tanti spazi dove vedere l’arte moderna e contemporanea. Il 18 marzo il Metropolitan Museum of Art ne aggiungerà ancora uno. Con l’apertura del Met Breuer, storica sede del Whitney liberato dopo il trasferimento del museo nella nuova sede di Renzo Piano lo scorso maggio, il Metropolitan avrà il 75% di spazio in più da dedicare alle opere moderne e contemporanee, considerate per molto tempo un settore «debole» dell’istituzione. Come potrà distinguersi in un clima di competizione senza precedenti?

La risposta, spiega Sheena Wagstaff, direttrice del Dipartimento di Arte moderna e contemporanea del museo, è quella di guardare non solo in avanti ma anche al passato. Il programma inaugurale comprende «Unfinished: Thoughts Left Visible» (18 marzo-4 settembre), 197 opere in varie fasi di lavorazione, dal Rinascimento ai giorni nostri. La prossima grande collettiva, in collaborazione con il Dipartimento di Scultura e Arti decorative europee, «presenterà un percorso storico ancora più lungo e una traiettoria globale più ampia», anticipa la Wagstaff.

Il museo ha invitato il pittore Kerry James Marshall a selezionare circa 35 oggetti dalla sua collezione da esporre nella sua retrospettiva il prossimo autunno (25 ottobre-30 gennaio 2017). Il Met Breuer si distinguerà anche grazie alla sensibilità singolare della Wagstaff, già capocuratore della Tate Modern di Londra. La Wagstaff dice di essere stata la prima inglese a frequentare il Whitney Museum of American Art’s Independent Study Program e conosce bene il «Breuer».

Ha esaminato attentamente l’archivio di Marcel Breuer, l’architetto e designer proveniente dal Bauhaus e progettista dell’edificio nei primi anni ’60, e si è deliziata nella ristrutturazione di piccoli particolari, come l’orologio originale alla parete dell’atrio di ingresso.
La Wagstaff ha però suscitato un certo scetticismo con la scelta di Nasreen Mohamedi, un’artista indiana poco conosciuta, scomparsa nel 1990, i cui disegni fatti di linee sottili sono spesso comparati a quelli di Agnes Martin, per la prima personale del museo. «Ma è un’artista super radicale nella sua maniera incredibilmente pacata», afferma la Wagstaff.

Non è difficile vedere nella sua scelta una replica al Whitney, che nel 2014 dopo 48 anni ha lasciato il Breuer con una mostra di Jeff Koons (il Met affitta il Breuer dal Whitney per 8 anni rinnovabili). «La scelta di Koons è stata quella che Adam Weinberg, direttore del Whitheny, definiva l’acuto finale, sostiene la Wagstaff. Io desideravo qualcosa di diverso per presentarci al pubblico».

Alcuni si chiedono ancora se il pubblico statunitense apprezzerà il focus internazionale della Wagstaff e il suo gusto sottile e raffinato. Dal suo arrivo al museo nel 2012, ha riconfigurato lo staff del Dipartimento, aggiungendo le nuove posizioni di curatori di Arte latinoamericana, mediorientale e del Sud-Est asiatico. «Questo funziona a Londra, ma non in America, perché l’America è stata fatta in modo completamente diverso», ha dichiarato l’artista Sean Scully.

Altri chiedono che il Met metta in discussione lo status quo in modo ancora più marcato per emergere davvero. «Tentativi incerti di fare qualcosa di diverso, prese di posizione marginali nei confronti dello standard e “ri-presentazioni” delle collezioni non sono sufficienti», pensa l’artista Deborah Kass. «Servono nuove storie, una vera ripartenza, se queste istituzioni vogliono contare davvero per il pubblico del futuro».

Il Met Breuer sarà uno spazio di prova e sperimentazione, mentre il Metropolitan progetta la ristrutturazione della sua ala dell’arte moderna e contemporanea sulla Fifth Avenue. L’intervento dello studio David Chipperfield Architects raddoppierà lo spazio espositivo attuale. Ma la Wagstaff crede che lavorare negli spazi, al confronto modesti, del Breer sarà un buon allenamento. «Dobbiamo raccontare una storia che non sia autoindulgente. Una scelta eticamente fondamentale in un periodo di espansione».

Julia Halperin, 03 febbraio 2016 | © Riproduzione riservata

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