Dopo 114 anni, come dovrebbero cambiare le leggi di tutela e notifica

Abbiamo chiesto ad alcuni dei più noti Avvocati che si occupano di vicende legate al mercato dell’arte uno strumento ideale di protezione dei Beni Culturali efficace per lo Stato ma allo stesso tempo non vessatorio per i proprietari

Francesca Romana Morelli |

Abbiamo chiesto ad alcuni dei più noti Avvocati che si occupano di vicende legate al mercato dell’arte: «La legge di tutela e il sistema della notifica è arrivato a noi praticamente immutato dalla legge del 1909. Sono passati oltre 110 anni. Come immaginerebbe uno strumento ideale di protezione dei Beni Culturali efficace per lo Stato ma allo stesso tempo non vessatorio per i proprietari oggi nel 2023?»

Giuseppe Calabi, Avv. Giuseppe Calabi, Studio Legale CBM & Partners, Milano
Occorrerebbe un atto di maggiore coraggio da parte dei decisori politici rispetto alla timida riforma del 2017. Lo Stato dovrebbe riconoscere che la dichiarazione di interesse culturale incide fortemente e negativamente sul diritto di proprietà privata ed il privato dovrebbe essere indennizzato a fronte della classificazione di una cosa di sua proprietà come bene culturale.

È quello che avviene in Francia dove il concetto di «servitude de classement» esprime molto bene l’idea che la cosa è al servizio di un pubblico interesse ed il costo di questo servizio deve essere sostenuto dalla collettività che ne è beneficiaria. Lo stesso principio, mutatis mutandis, dovrebbe valere nel caso in cui lo Stato decida di negare l’uscita definitiva dal territorio di un bene di proprietà privata: il divieto di esportazione dovrebbe essere temporaneo per consentire allo Stato di trovare i fondi necessari per acquistare la cosa che il privato intende esportare al valore di mercato internazionale: è quello che succede in Francia ed in Inghilterra.

Gli altri temi nella mia wish list sono:
• adozione di soglie di valore per il controllo all’uscita dal territorio differenziate ed almeno pari a quelle comunitarie con abbandono della soglia unica che si è rivelata inadeguata rispetto a troppe categorie di beni: si pensi, ad esempio, ai libri ed alle opere d’arte moderna
• eliminazione della distinzione 50/70 ed innalzamento per tutti i beni della soglia temporale a 70 anni
• rispetto dei termini per il rilascio di ALC/licenze di esportazione con maggiore responsabilizzazione delle commissioni territoriali, spesso soggette ad un doppio o triplo controllo da parte di commissioni centrale e/o di esperti esterni all’Amministrazione
• istituzione di una banca dati per i beni notificati
• possibilità di chiedere CAS/CAI per tutti i beni di documentata e legittima provenienza straniera al momento dell’ingresso in Italia qualora gli stessi siano suscettibili di essere oggetto di provvedimenti di tutela in Italia /regime di extraterritorialità)
• Possibilità di accordare una immunity from seizure a tutte le,opere di provenienza estera prestate in mostre italiane.

Francesco Emanuele Salamone, Avvocato specializzato in diritto del patrimonio culturale e Professore di Diritto dei Beni culturali presso l’Università La Sapienza di Roma. Membro del Tavolo permanente per la circolazione delle opere d’arte istituito presso il Mic
Bisognerebbe partire dall’accettazione del seguente assunto: la «notifica» non è una rosa senza spine. La nostra Amministrazione dovrebbe quindi prendere maggiore contezza del fatto che «notificare» o negare l’esportazione di un bene voglia dire, innanzitutto, limitare la proprietà privata ed i diritti alla stessa connessi.

Siamo tutti d’accordo che la tutela del nostro patrimonio culturale sia sacrosanta; ma, allo stesso tempo, è altrettanto sacrosanto il diritto di proprietà privata, anch’esso tutelato dalla nostra Costituzione. A questo punto, la domanda sorge spontanea: in concreto, com’è possibile una tale forma di tutela illuminata? Basterebbe utilizzare gli strumenti attuali ma con un’impostazione differente: passare, in poche parole, dal concetto «nel dubbio, vincolo» al concetto «vincolo in quanto il bene è oggettivamente importante».

Per fare ciò, l’Amministrazione dovrebbe quindi ricorrere al vincolo (nella forma della «notifica» e/o del diniego all’esportazione) solo in quei casi in cui, sulla base di motivazioni oggettive e stringenti (e non come, ahimè, alcune volte accade mediante il ricorso a tesi probabilistiche), il bene possa dirsi di interesse culturale particolarmente (ed oggettivamente) importante.

In secondo luogo, l’amministrazione, una volta individuato con esattezza il bene (concetto non scontato!), dovrebbe, in ogni caso, prima di apporre un vincolo o un diniego all’esportazione, rispondere alla seguente domanda: l’apposizione di un vincolo su quel determinato bene quale valore aggiunto conferirebbe al nostro patrimonio? In tal modo, con pochi e semplici passaggi, si eviterebbero notifiche «seriali» (che senso ha vincolare l’ennesima bella opera di un autore molto rappresentato nelle collezioni pubbliche?) o notifiche o dinieghi all’esportazione «esplorativi» (ossia ispirati al seguente «ragionamento»: non so esattamente di cosa si tratti ma, visto che in futuro qualche storico dell’arte potrebbe studiarlo, intanto, nel dubbio, lo vincolo).

Solo in tal modo, con un cambio di prospettiva, si arriverebbe, a mio avviso, ad una tutela illuminata in cui la proprietà privata potrà, in determinate situazioni, motivatamente cedere il passo all’interesse collettivo alla tutela del patrimonio culturale. Sotto il profilo normativo, infine, sarebbe opportuno apportare qualche correttivo al nostro Codice, al fine di garantire il rispetto dei tempi di legge (soprattutto in tema di rilascio degli Attestati di libera circolazione) e, in tal modo, conferire maggiore competitività agli operatori italiani rispetto a quelli stranieri.

Come farlo: dando maggiore autonomia agli Uffici esportazione (ed alle commissioni di esperti insediati presso tali Uffici) in un’ottica di generale decentramento in cui la Direzione Generale conservi il compito di coordinare e di indirizzare l’azione amministrativa del territorio. Anche in questo caso, basterebbe tornare al modello organizzativo tracciato dalla stessa Direzione Generale nel 2019.

Giulio Volpe, Avvocato, specialista in diritto e mercato dell’Arte, già Consigliere del Ministro dei Beni Culturali Prof. Antonio Paolucci, docente di Legislazione internazionale e comparata dei Beni Culturali presso l’Università degli Studi di Bologna
L’avventura giuridico-amministrativa delle cose d’arte e di storia in Italia muoveva i primi passi oltre due mila anni fa, con Cesare e Cicerone, per giungere a noi attraverso intuizioni di genio ed esempi perfino eroici, in alternanza con fasi di disarmante oscurantismo. L’antica piaga dell’esportazione illecita ai nostri tempi si è assai attenuata, posto che gran parte del patrimonio storico-artistico mobile è assicurato ai musei o nelle collezioni ex fidecommissarie e non, nonché vincolato in istituti di cultura vari o presso altri soggetti.

Occorre allora in primo luogo dismettere le ipocrisie politiche, o le posizioni ideologiche e preconcette di chi colpevolizza e soffoca il mercato dell’arte a priori senza avere il buon gusto di ricordare che la grande e virtuosa parte di quel mercato ha sostenuto studi, ricerche, restauri, o ricomposto contesti culturali smarriti, dunque è stata anche, ci si decida ad ammetterlo, il braccio stesso della tutela, dove la tutela di Stato non sarebbe forse mai arrivata. E veicolando i beni, il mercato ha veicolato anche e senza alcun dubbio la maestria del nostro Paese, oltre a favorire il dialogo tra culture diverse e la nascita di nuove e fiorenti identità.

C’è, insomma, un rapporto spesso viscerale tra il collezionismo, il mercato e la storia dell’arte, se le botteghe antiquarie hanno dato impulso a generazioni di studiosi e all’occhio di molti tra i più celebri «conoscitori», come è impossibile negare. Venendo alla sfera delle norme e dei principi giuridici, fermo restando quanto già asserito in più occasioni dalla Corte Costituzionale, cioè il primato dell’interesse pubblico alla tutela del patrimonio storico artistico su svariati altri interessi di natura economico-finanziaria, dapprima desidero ricordare che non di soli interessi economici si tratta, come sopra evidenziato, bensì della stessa sopravvivenza del sistema dei beni culturali in Italia.

Se non bastasse, aggiungo che il Consiglio di Stato ha ormai saldamente affermato l’esigenza di «collaborazione procedimentale» tra pubblico e privato, affinché quest’ultimo trovi lo spazio adeguato a tutelare e veder contemplate le proprie ragioni »nel doveroso rispetto del dialogo tra le parti». Né ha esitato, il supremo organo della giustizia amministrativa, nell’affermare che in molti casi, davvero troppi, secondo la mia più che ventennale esperienza di avvocato dell’arte e docente della materia, il provvedimento ministeriale di diniego all’esportazione di un’opera d’arte privata e il conseguente provvedimento di dichiarazione dell’interesse culturale dello stesso bene siano destinati in modo del tutto illogico ed irragionevole a pregiudicare gli interessi del privato ricorrente (la cui opera non potrà più in tal caso essere portata oltre i confini nazionali e perderebbe conseguentemente una gran parte del suo valore di mercato) a fronte di un «interesse pubblico» non adeguatamente specificato o dimostrato.

In Italia, le soglie di valore del bene storico-artistico ai fini del possibile (e invasivo) esercizio di tutela sono, rispetto agli allegati ai provvedimenti europei e alla normativa degli ordinamenti di altri importanti Stati membri, quantomeno di oltre dieci volte inferiori (rispetto alla Francia o al regolamento europeo n. 116/2009), e fino ad oltre venti volte inferiori (rispetto alla Germania), esponendosi dunque il privato a innumerevoli lesioni patrimoniali di diritti, aventi rango costituzionale senza paragoni tra i partners del continente.

Se poi puntiamo lo sguardo sugli istituti della disciplina interna italiana, ci accorgiamo che il Codice contiene istituti volti a consentire allo Stato di sostituirsi all’acquirente privato (prelazione) o di intervenire nel procedimento di uscita dal territorio nazionale (acquisto coattivo all’esportazione), fatta salva la possibilità per l’esportatore di rinuncia all’uscita dell’opera. Ricorrendo a questi strumenti, dunque, lo Stato può acquisire il bene versandone un prezzo «congruo».

Anche in altri Paesi europei questo si verifica, ma con una differenza che segna una distanza abissale tra la nostra disciplina e la loro: essi riservano allo Stato un termine (di 30 mesi in Francia) per reperire i fondi, ma in linea di massima, se lo Stato non lo acquista, al decorso del termine il bene viene lasciato andare oltre confine. Inoltre, nel resto d’Europa la verifica sulle opere avviene senza indugi e con estremo rispetto del privato, mentre in Italia, Repubblica fondata sulla burocrazia, si vorrebbe controllare tutto (comprese le cravatte del nonno), salvo dilatare all’inverosimile i tempi previsti (grazie ai «termini ordinatori»), salvo poi acquisire pochissimo alle collezioni pubbliche.

Quanto alla soglia di anzianità del bene ai fini dell’operatività della tutela, spostata da 50 a 70 anni grazie alla riforma del 2017, ricordo che un Consigliere governativo, quando partecipando alle missioni del gruppo Apollo con l’ottimo collega Giuseppe Calabi e rappresentanti di Antiquari e Galleristi per promuovere la citata riforma del 2017 entrammo a Palazzo Chigi, ci informò che il Premier di allora sarebbe stato possibilista circa una estensione della soglia cronologica fino a cento anni (come previsto in Spagna).

Come in passato auspicavo dalle colonne del Sole24Ore, mi permetto di formulare l’ipotesi che segue: soltanto se un bene storico-artistico è davvero e senza dubbio elemento costitutivo irrinunciabile di un contesto italiano pubblico o privato di riconosciuta e notevolissima importanza (non solo ipotetica, come spesso avviene) identitaria, venga eccezionalmente vincolato (o se ne neghi l’uscita dal Paese) come un «tesoro nazionale» (locuzione usata in Francia come in Inghilterra). Peraltro, le componenti non irrinunciabili al «contesto» del nostro patrimonio rimarranno italiane anche quando abbiano «ragionevolmente» passato il confine.

Occorre, non di meno, il completamento di un archivio unificato dei vincoli esistenti, consultabile da operatori e da uffici esportazione, come richiesto a gran voce da molti anni. Sull’esempio anglosassone, infine, nel nostro Paese si potrebbe pensare alla stesura di un Report annuale obbligatorio in merito all’attività di controllo all’esportazione e di esercizio del potere di vincolo. Quanto all’importazione temporanea e ai relativi procedimenti per il CAS e il CAI, sul modello spagnolo (Art. 32, Ley del Patrimonio Histórico Español) si potrebbe prevedere l’impossibilità di assoggettare ad alcuna limitazione l’uscita di un bene per un termine di dieci anni dalla data di importazione.

Anche dall’ordinamento spagnolo, del resto, si evince la netta intenzione di rendere attrattivo il sistema-Paese, incentivando, all’esatto contrario di ciò che oggi accade in Italia, l’entrata nel Paese di innumerevoli opere che beneficiano di esenzioni, certe e di lunga durata, da ogni inciampo burocratico o procedimentale. In definitiva, peraltro, nelle stesse intenzioni dei primi protagonisti del neonato Ministero per i Beni Culturali (e non «dei» Beni Culturali) italiano si intendeva la funzione Ministeriale come tutto ciò che dà un senso al nostro impegno e che non consentirà mai a questo nostro «servizio» di trasformarsi in «potere» (F. Sisinni).

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