Dalla sacrestia al gay pride: il «camp fashion»

In passerella Coco Chanel, Paul Poiret, Virgil Abloh, Moschino e Alexander McQueen, senza dimenticare Filippo, il fratello del Re Sole

Una veduta degli allestimenti della mostra. Cortesia di The Metropolitan Museum of Art, BFA.com/Zach Hilty
Victoria Stapley-Brown, Helen Stoilas |  | New York

Con il termine «camp» «si designava una sottocultura e un linguaggio privato della comunità gay», spiega Andrew Bolton, curatore del Costume Institute al Metropolitan Museum of Art di New York, finché non diventò «mainstream» grazie al rivoluzionario saggio di Susan Sontag del 1964 Notes on Camp. L’analisi estetica della sociologa americana, che cita componenti quali l’artificio, la teatralità, il pastiche e l’umorismo, è alla base della mostra «Camp: Notes on Fashion» in corso al Costume Institute fino all’8 settembre, curata da Bolton con Karen Van Godtsenhove.

Se sarà un successo come quella dell’anno scorso, «Heavenly Bodies: Fashions and the Catholic Imagination», prima nella classifica de «Il Giornale dell’Arte» delle mostre più visitate del 2018, con 1.659.647 ingressi, la mostra si rivelerà fondamentale per il «camp». «Notes on Fashion» allinea circa 250 oggetti
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