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Custodire il fuoco

Il manifesto per il patrimonio di Giuliano Volpe

Silvia Mazza

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Con Patrimonio al futuro. Un manifesto per i Beni culturali e il Paesaggio Giuliano Volpe, presidente del Consiglio Superiore per Beni culturali e paesaggistici del Mibact, compie un’operazione di sapiente calibratura nel definire principi e obiettivi generali (come da «manifesto» del sottotitolo) e nel commentare, allo stesso tempo, la fase di transizione della riforma ministeriale in atto (il ministro Dario Franceschini firma la prefazione), che «vede la destrutturazione di un sistema che (…) è durato alcuni secoli, e la costruzione di nuovi equilibri». Un’operazione, per certi aspetti, ardua.

Consegnare, infatti, alle pagine di un libro quello che accade nel momento stesso in cui accade, senza dunque attendere il fisiologico assestamento di innovazioni di portata storica o, se vogliamo, senza quell’intervallo cronologico che consenta di guardare ad esse con sufficiente distacco, è una sfida effimera, sebbene «necessaria», dato che certi passaggi della riforma sono stati oggetto di accesi dibattiti. È come assistere alla trasformazione di Dafne rincorsa da Apollo: sotto i nostri occhi ciò che era è già altro, eppure quel breve attimo del divenire è sottratto alla temporalità, fissato da Bernini nella materia eterna del marmo.

Volpe sottolinea l’urgenza di risorse adeguate, e dell’immissione di nuovo personale qualificato, a cui ha poi risposto un aumento del bilancio 2016 del Mibact pari al 10% e l’annuncio di un concorso straordinario per cinquecento nuove assunzioni, contenuti nella legge di stabilità; scrive quando non erano ancora stati nominati i venti direttori delle eccellenze museali del Bel Paese, i «super» direttori della svolta per i quali, però, è stato necessario predisporre un team di assistenza interno al Ministero; depreca «un automatismo rozzo e pericoloso come il silenzio-assenso» introdotto dal Ddl Madia che, nel frattempo, è stato approvato e per metterci una pezza sono state introdotte, con un emendamento governativo alla Legge di stabilità, le soprintendenze uniche interdisciplinari, sul modello siciliano (se su una grande opera pubblica a dare il parere è una soprintendenza unica, invece che due o tre, si ha maggiore probabilità di rispondere entro i tempi).

Per quest’ultimo punto, data la portata storica della modifica organizzativa ministeriale, vale la pena soffermarsi su un passaggio del libro. Del modello siciliano l’autore riconosce la validità teorica, ma lo dice fallimentare nella pratica. Eppure, da quarant’anni esso rappresenta in Sicilia la concreta traduzione di quello che Volpe auspica essere un approccio olistico, ovvero secondo una visione d’insieme e non frammentata, alle questioni (tutela compresa) del Patrimonio. Se si dice che questo modello ha fallito, non si fa altro che chiamare direttamente in causa l’operato dei dirigenti delle Soprintendenze che, in questi decenni, «per un’eccessiva prossimità a un potere politico invadente», avrebbero visto «condizionata» la propria «autonomia», come se, proprio al pari dei loro colleghi italiani, specialisti, e non generici «burocrati», non «avessero rappresentato l’unico baluardo nella difesa del patrimonio dalle speculazioni, dalla cementificazione, dal commercio illegale, dalle mafie (…)».

Sembra, allora, più corretto riconoscere che è ad entrambi i livelli, statale e della Regione autonoma, che si riscontrano gli stessi vizi in termini di condizionamenti della politica, risorse umane sottostimate e da riqualificare, incapacità di amministrare virtuosamente le risorse testimoniata dagli enormi residui passivi. Se, poi, in Sicilia la legge regionale sulla dirigenza unica (10/2000) consentirebbe di non tenere conto di alcuna competenza di carattere tecnico (ma il dettato della legge, all’art. 6, c. 2, stabilisce altro), è esattamente quello che i dipendenti Mibact, nell’appello del 24 agosto scorso al presidente Mattarella, denunciano non essere stato osservato nella riorganizzazione ministeriale. Volpe, quindi, conclude questo passaggio allineandosi alla schiera di coloro che invocano l’abrogazione dell’autonomia in materia di Beni culturali di cui gode la Regione, che, tra l’altro, proprio per il regime speciale anche nel campo legislativo, resta l’ultimo baluardo delle Soprintendenze «indipendenti», perché la vergognosa Legge Madia si ferma allo Stretto.

Qual è, in definitiva, il sillogismo per cui, una volta rinunciato all’autonomia nel settore, che, peraltro, non vieta una convergenza né un raccordo operativo con le politiche culturali di un Ministero che resta pur sempre affetto da macrocefalismo, miracolosamente verrebbe meno anche il forte condizionamento che la politica esercita sui dirigenti dell’Amministrazione e all’improvviso vedremmo partorite le più illuminate e progressiste politiche culturali? Mentre, di certo, finora la Sicilia «autonoma» è stata su più d’un fronte pioniere: oltre a quanto detto per le Soprintendenze uniche, ha anticipato con la legge Granata sul Sistema dei Parchi archeologici siciliani di 15 anni lo scenario nazionale che riforma i musei dotandoli di autonomia gestionale e finanziaria; ha dotato il Centro per il Restauro di Palermo di autonomia gestionale venti anni prima dell’Opd di Firenze; ha adottato il suo primo Piano Paesaggistico nel 2002 (ma già nel 1999 si avevano le Linee guida del Piano Paesaggistico regionale) e a seguire quelli di quasi tutti gli altri territori regionali, mentre è solo di recente che Puglia e Toscana hanno approvato i loro Piani, strumenti che, scrive Volpe, «superano la logica del mero vincolo per adottare una strategia progettuale»; e si è dotata di una legge (16/2014) istitutiva di quegli Ecomusei a cui l’autore riconosce un ruolo centrale nella costruzione dell’identità culturale.

E, allora, ciò che resta, granitico, del libro è da cercare in altro. È proprio perché sono in atto scelte determinanti per il futuro stesso del patrimonio, e con esso anche per il sistema Paese, se davvero disposto a costruire un nuovo modello di sviluppo, che la portata di questo contributo va misurata sulle proposte e idee che solo un’«alleanza degli innovatori», prescindendo dalle appartenenze, saprà tradurre concretamente: dai Policlinici per i Beni culturali all’istituzione di una Scuola Nazionale del Patrimonio; dalla comunicazione che favorisca l’accesso libero ai dati alle nuove forme di gestione; alla concezione olistica del patrimonio culturale e del paesaggio, che trova sponda nella stessa costruzione corale del libro, con le frequenti citazioni di Carandini, Settis, Monacorda, Frugoni, Bianchi Bandinelli e di molti altri protagonisti del dibattito di questi ultimi anni sui temi dei beni culturali.
Un nuovo approccio globale nel superamento delle divisioni specialistiche in cui, però, ci sarebbe un primus inter pares: l’archeologia, alla quale l’archeologo Volpe riconosce la possibilità di «svolgere un ruolo trainante», in virtù di «elementi costitutivi del suo Dna metodologico» ­(attenzione al contesto e alla stratigrafia, studio del territorio, propensione alla globalità e complessità) che, a ragion veduta, sono attribuibili anche all’architettura, all’urbanistica, alle scienze che studiano il paesaggio, persino alla storia dell’arte.

Molte le tematiche, dunque, che uno stile chiaro ed efficace permette di seguire anche ai non specialisti, rendendo il testo accessibile e godibile. Un libro che comunica dinamismo, tensione in direzione del futuro, entro una raffinata struttura compositiva circolare  concettuale: dal cuore di Duchamp che «pulsa» per l’illusionistico effetto prodotto dalla vibrante combinazione dei rossi e blu, in copertina (che rievoca quella del mensile francese «Cahiers d’Art», pubblicato dal 1926 al 1960), alla vivida citazione di Mahler in chiusura: «La tradizione è la custodia del fuoco, non l’adorazione della cenere».

Patrimonio al futuro. Un manifesto per i Beni culturali e il Paesaggio, di Giuliano Volpe, 180 pp., Electa, Milano 2015, € 14,00

La copertina del volume

Silvia Mazza, 15 gennaio 2016 | © Riproduzione riservata

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