Compiono 30 anni le «Pietre d’inciampo» di Demnig
Sono state posate per ogni persona assassinata dai nazifascisti in 26 Paesi europei e 120 città italiane. «Le cittadinanze sono sempre dalla parte delle pietre», dice la curatrice Adachiara Zevi

Il 12 gennaio l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino ha conferito a Gunter Demnig il titolo di «accademico d’onore». Il 74enne artista berlinese ha operato numerose volte all’ombra della Mole, dove ha installato, a più riprese a partire dal 1992, 150 delle sue ormai celebri «Pietre d’inciampo»: targhe d’ottone di 10x10 centimetri, collocate sul marciapiede prospiciente il luogo dove le vittime della deportazione nazifascista abitavano e da dove erano state prelevate per essere condotte nei lager.
Ciascuna targa reca incisi il nome della persona, la data di nascita, il luogo della deportazione e la data della morte. Ovvero il fondamento essenziale della vita, gli elementi base di qualsiasi storia umana. L’ubicazione a un passo dalla porta di casa indica inoltre dove questa vita, prima dell’orrore, si era svolta. Contestualmente alla cerimonia accademica, Demnig ha messo in posa altre pietre d’inciampo in via Nizza, corso Sommelier, via Accademia Albertina, via Carlo Alberto, piazza Statuto e via Saorgio.
Si è arrivati così a superare le 71mila pietre d’inciampo installate in 26 Paesi europei. A Torino fu la volta della numero 50mila. Prima e dopo, il memoriale più grande del mondo si è diffuso in tutti quei territori occupati dai nazisti oltre, ovviamente, alla Germania stessa, dove le pietre testimoniano delle incarcerazioni avvenute dal 1933. Le pietre (semplici placche d’ottone in forma di sampietrini, incastonati nel terreno) segnano l’avvenuta tragedia di ebrei, omosessuali, rom, oppositori politici, militari ribelli e disabili. Percorrendo i luoghi urbani, di cui sono ormai parte integrante, vi si «inciampa» visivamente e mentalmente. Il loro ingombro è tanto esiguo quanto vasta è l’eco interiore suscitata, per le implicite rilevanze d’ordine etico, umanitario, sociale e politico.
A Roma le «pietre» di Demnig sono quasi 400. Dal 2010, a curare annualmente i progetti del loro posizionamento nei quartieri della Capitale, è Adachiara Zevi, già docente presso varie Accademie di Belle Arti, storica dell’arte del Novecento e autrice di studi sull’opera di Castellani, Kounellis, LeWitt e sull’arte americana. Il tredicesimo appuntamento di installazione di «pietre» della memoria è avvenuto, in gennaio, pochi giorni dopo Torino, e ha celebrato il ricordo di 30 vittime nei luoghi della loro vita: in piazza Santi Apostoli (l’archeologo Ludwig Pollak e famiglia), via Arenula, via Giubbonari, via S. Angelo in Pescheria e in altre sedi del centro storico, ma anche in quartieri decentrati.
Roma, con la Zevi, è stata la prima città italiana ad aderire al progetto, che oggi si è esteso ad altre 120 città nella penisola. «È una mappa della memoria urbana, dice Adachiara Zevi, che, espandendosi progressivamente su tutto il suolo nazionale ed europeo, visualizza la dimensione ipertrofica della persecuzione, della resistenza e della deportazione. I tempi lunghi sono la forza dell’opera d’arte di Demnig. Non è infatti solo un progetto, ma un processo con cadenza ciclica il cui esito non è programmabile. La sua efficacia consiste nel fatto che non si delega la memoria al monumento, ma si invita discretamente il riguardante ad assumersi l’onere del ricordo: il monumento diventa chi lo guarda. Non avendo una posizione centrale ma essendo disseminate in tutta la città, ogni quartiere ha le sue pietre dedicate alle vittime che vivevano lì.
Le pietre d’inciampo sono la quintessenza dei “monumenti per difetto”, cioè antiretorici, antigerarchici, democratici, decentrati. Nel 2010 le prime “pietre d’inciampo” furono messe a Roma a ricordo dei carabinieri deportati dalla caserma di viale Giulio Cesare il 7 ottobre 1943 e dei parenti di Piero Terracina, unico sopravvissuto della famiglia ai lager. Un mese dopo l’installazione le pietre vennero imbrattate, ma le abbiamo subito ripulite. Così come quelle divelte nel 2012 e poi ancora nel 2018, nel rione Monti.
La cittadinanza è sempre dalla parte delle pietre, perché esse danno un senso di appartenenza al quartiere e alla sua storia. I più entusiasti sono i giovani, coinvolti mediante le scuole anche nelle loro cicliche puliture. Tutto nasce da un rito elementare: nel collocarle, Demnig si inginocchia, e così, secondo la sua idea, reca omaggio alle vittime. Alberta Levi Temin, scampata bambina alla Shoah, disse davanti alle pietre che ricordavano l’intera sua famiglia assassinata dai nazifascisti, “mi sembra di riportarli a casa”».
