Come si fa a organizzare una fiera d’arte quando c’è una guerra alle porte?

La fiera di Tbilisi più georgiana e di successo, malgrado l’assenza dei russi

Natela Grigalashvili ha documentato lo stile di vita dei Rom nella regione montuosa dell’Adjara. La foto è stata esposta dalla International Women in Photo Association (Iwpa)
Anna Somers Cocks |  | Tbilisi

Come si fa a organizzare una fiera d’arte quando c’è una guerra alle porte e metà delle gallerie e della clientela abituali non si presentano? È stata questa la sfida per Eric Schlosser, direttore della Taf, Tbilisi Art Fair, svoltasi dal 22 al 25 settembre nella sede di ExpoGeorgia. Gli assenti, ovviamente, erano i russi, rintanati nel loro Paese da quando Putin ha invaso Ucraina o, se ricchi, rifugiati a Monaco o in Montenegro.

La fiera era prevista a maggio, ma è stata rimandata (alcuni pensavano cancellata definitivamente) dopo l’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio. Se la Taf si è tenuta, nonostante tutto, il merito è di Kaha Gvelesiani, imprenditore e fondatore del complesso Expo Georgia: «La fiera riceve una piccola sovvenzione, 170mila euro, dal Governo, ma noi copriamo il resto dei costi. Penso che sia importante per il Paese», afferma. In effetti, è lui ad aver lanciato la Taf nel 2018 e ad averne sostenuto tutte e tre le edizioni.

I riflettori che ha puntato sulla fiera hanno influito in modo tangibile sulla scena artistica georgiana. «Ci sono sei nuove gallerie a Tbilisi e gli artisti si presentano in modo più sofisticato», osserva Schlosser. L’evento sembra anche aver contribuito alla riscoperta del passato artistico del Paese. Il mese scorso, ad esempio, a Tbilisi abbiamo visto opere sia della modernista Vera Pagava (1907-88), emigrata dopo l’incorporazione forzata della Georgia nell’Urss del 1921, sia di artisti del regime sovietico come Irakli Toidze (1902-85). Pagava si è affermata sulla scena artistica parigina e nel 1966 ha rappresentato la Francia alla Biennale di Venezia. La Galerie Chardin ne esponeva i gradevoli dipinti postcubisti degli anni Settanta, forme geometriche dai colori pallidi.

Schlosser è riuscito a coinvolgere 25 gallerie più una manciata di mostre, in cui le opere esposte, perlopiù provenienti dalla Georgia, erano in vendita e nonostante la crisi la fiera si è rivelata un successo. Le vendite sono state superiori a quelle dell’edizione precedente, con prezzi che variavano da 100 a 35mila euro (è il genere di manifestazione in cui si può acquistare senza consultare prima il proprio consulente finanziario).

Il buon risultato si deve forse al fatto che i georgiani si sono identificati maggiormente con l’offerta, proprio perché georgiana? Certo, è un dato di fatto che nei mercati dell’arte giovani, come il Medio Oriente, i collezionisti tendono a partire dall’arte della propria regione. Ma può anche darsi che l’esito sia dovuto al semplice fatto che le persone si sono ormai abituate ad acquistare in una fiera d’arte.
«The feat of the girl» di Iraki Toidze (1960s)
Una porta aperta sulla mente dei georgiani
Che cosa ha offerto l’evento ai visitatori stranieri? Innanzitutto la possibilità, mediata dall’arte, di entrare nella mente di questo Paese, geograficamente in Asia occidentale ma culturalmente appartenente all’Europa, con una popolazione che comprende minoranze provenienti da tutto il Caucaso. La mitologia nazionale si basa sulla grande antichità del suo cristianesimo e sul fatto, all’apparenza scientificamente provato, di aver inventato la vinificazione. La giovane popolazione poliglotta di Tbilisi (quasi un terzo dei 3,7 milioni di abitanti del Paese vive nella capitale) è però collegata al mondo moderno esattamente come un giovane tedesco, ed è qui che l’arte contemporanea gioca un ruolo attivo. «Tbilisi è la nuova Berlino», afferma Nino Surguladze, responsabile amministrativo di Expo Georgia.

Per il visitatore occidentale ciò che più colpisce degli artisti georgiani è la bravura tecnica perché, come in tutti i Paesi ex sovietici, le scuole d’arte hanno dato loro la formazione rigorosa che le accademie occidentali hanno abbandonato decenni fa. Naturalmente, hanno familiarità anche con il concettuale, come Gvantsa Jishkariani, artista e cofondatrice della galleria Why Not, inaugurata in un sottopassaggio e trasferitasi in uno spazio convenzionale nel 2020.
L’artista propone variazioni sull’arte kitsch cara all’era sovietica, come gli arazzi raffiguranti orsi, che lei decostruisce, e i mosaici del realismo socialista.

Nella categoria del figurativo, la galleria Kera, fondata da due donne pochi mesi fa, ha venduto per 8mila euro a un collezionista georgiano un cupo e terrificante dipinto di Tedo Rekhiashvili, raffigurante la cabina di un aereo con piloti palesemente musulmani che stanno per schiantarsi su una piscina in cui ragazze in costume da bagno ballano con Batman e Superman.

Tutti capiscono la fotografia
La fiera è particolarmente forte nel settore della fotografia. Le opere possono essere stampate in loco, risparmiando sui costi di trasporto, e anche chi non ha familiarità con l’arte contemporanea le capisce. Schlosser ha invitato l’organizzazione non profit francese International Women in Photo Association (Iwpa) e ha scelto le foto di Natela Grigalashvili, che ha documentato la vita dei Rom nella regione montuosa dell’Adjara, e dell’iraniana Maryam Firuzi, le cui fotografie, di grande attualità, ritraggono donne bellissime interamente ricoperte, tranne il viso e la mano destra, da pesci, conchiglie e foglie.

La galleria Valid Photo di Barcellona, che ha partecipato a tutte le edizioni della fiera, aveva un suo stand ma ha anche cocurato, nel vicino edificio Hive, la mostra di 80 squisite, piccole nature morte in bianco e nero di Masao Yamamoto. Hive è anche la sede in cui espongono artisti con meno di 35 anni, selezionati da Schlosser tramite un bando aperto (alla fine di luglio era ancora in corso); uno di loro era l’unico artista russo presente in fiera.

L’arte georgiana, a quanto pare, va forte, ed è oggetto di scoperta e riscoperta. La Fondation Beyeler di Riehen (Basilea) allestirà l’anno prossimo una mostra sui dipinti naïf di vita quotidiana, animali e dignitari georgiani di Nico Pirosmani (1862-1918), che un secolo fa entusiasmarono le avanguardie parigine e che dagli anni Sessanta sono stati esposti al Louvre, in Giappone, a Vienna e a Torino, mentre a Bruxelles l’edizione 2023 di Europalia, il festival artistico che a cadenza biennale celebra una Nazione invitata, sarà dedicata alla Georgia, con una mostra di arte modernista curata da Daniel Baumann, direttore della Kunsthalle di Zurigo.

La Georgia sta diventando di moda e il turismo rappresenta ormai oltre il 3% del Pil, con eventi di lusso per i ricchi, come lo Tsinandali Music Festival di Georgi Ramishvili in collaborazione con il Festival di Verbier. Nel frattempo, dopo l’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio 100mila russi sono fuggiti in Georgia e, alla fine del mese scorso, decine di migliaia di giovani hanno attraversato il confine, alcuni a piedi, attraverso le montagne del Caucaso per evitare di essere arruolati.
Un graffito per le strade di Telavi che recita «Basta le prediche sul nostro passato glorioso, fate qualcosa per il futuro. Banksy»
Come pensano i russi esiliati del mondo della cultura
Ho parlato con un regista teatrale e un direttore di museo di Mosca e con un artista di San Pietroburgo. Tutti mi hanno intimato di non fare i loro nomi. Uno crede che, con il protrarsi della guerra, anche gli intellettuali metteranno da parte i loro atteggiamenti liberali e diventeranno ostili all’Occidente. Un altro ha detto che la censura sempre più rigida in Russia si deve al Ministero della Cultura, che è più realista del re: «Non ci sono linee guida: tutto può essere perseguito». «Un attacco nucleare contro i soldati ucraini è inevitabile», ha opinato il terzo: «I russi credono davvero che la Nato li stia minacciando».
In tutta questa incertezza, una cosa è certa: la libera partecipazione della Russia al mondo internazionale della cultura che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni è stata sospesa. Per quanti decenni?

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