Clément Chéroux al MoMA

È stato nominato chief curator del dipartimento di Fotografia dell'istituzione newyorkese

Clément Chéroux. © Frédéric Neema
Monica Poggi |

New York. Nato nel 1970 a Vélizy, in Francia, Clément Chéroux è stato da poco nominato chief curator of Photography del Museum of Modern Art (MoMA). Prima di questo ruolo ha ricoperto la stessa posizione al Centre Pompidou di Parigi e, dal 2016, al San Francisco Museum of Modern Art (SFMoMA). Fra gli studiosi più apprezzati in tutto il mondo, ha pubblicato decine di libri e curato altrettante mostre di fotografia moderna e contemporanea.

Può fare un bilancio dei suoi tre anni allo SFMoMA?

A San Francisco ho trovato una comunità fotografica straordinariamente accogliente e nel museo ho diretto un dipartimento di otto persone e supervisionato una ventina di mostre. Con i suoi mille metri quadrati lo spazio permanente dedicato alla fotografia è il più grande al mondo in un museo di arte moderna e contemporanea. Ho curato personalmente sette mostre. Il mio programma di acquisizioni è stato orientato a reperire, piuttosto che immagini singole, serie tra cui quella realizzata da Paul Fusco sul treno funebre di Robert Kennedy, «Ponte City» di Mikhael Subotzky e Patrick Waterhouse, e recentemente le 200 stampe vintage di «Christmas at Cuzco» di Irving Penn.

Quali saranno i suoi primi passi al MoMA?

Sono entusiasta di unirmi al MoMA che, con il recente riallestimento, vive una nuova dinamica di presentazione delle sue collezioni in cui la fotografia interagisce con le altre arti e svolge un ruolo molto importante nella comprensione del modernismo. È una collezione mozzafiato di oltre 50mila pezzi, la madre di tutte le raccolte fotografiche fin dall’apertura del museo nel 1929. Arriverò in giugno e, insieme al team del museo, svilupperemo un programma; ora è troppo presto per parlare dei primi progetti.

In che modo pensa di valorizzare la collezione e in quale direzione orienterà le acquisizioni?

Non sono un curatore che difende un singolo tipo di fotografia: sperimentazione contro documentazione, o ricerca artistica verso indagine autobiografica. Ho sempre avuto un approccio molto diverso. vale a dire olistico, alla fotografia, essenzialmente basato sulla qualità del progetto. Intendo continuare in questa direzione. Lavoreremo per valorizzare i fotografi, ma anche gli artisti che usano la fotografia.

Nell’era degli smartphone e dell’iperconnessione, quale futuro vede per questo linguaggio?
Ho già dedicato due mostre a come il digitale ha cambiato la fotografia («From here on», 2011 e «snap+share. Transmitting photographs from mail art to social networks», 2019) e intendo continuare a riflettere su queste questioni. Ma oggi il problema principale per un dipartimento di fotografia all’interno di un museo multidisciplinare mi sembra più quello della specificità del mezzo. La difesa della specificità della fotografia è stata la grande battaglia del ventesimo secolo. Affinché la fotografia fosse riconosciuta come arte, era necessario evidenziare particolari qualità che gli altri mezzi non avevano: il suo valore documentale, la sua precisione, la sua riproducibilità ecc. Oggi nessuno contesta l’idea che la fotografia sia un’arte. Quindi cosa dovremmo fare per difendere la specificità del mezzo? Nel ventesimo secolo è stata difesa isolando la fotografia, oggi dovremmo farlo mescolando la fotografia con le altre arti.

© Riproduzione riservata
Altri articoli di Monica Poggi