Cinque anni dopo #MeToo, che cos’è cambiato per le artiste?
Alcune gallerie hanno scritturato donne di alto profilo, le cui carriere però sovente sono iniziate ben prima che l’industria s’interessasse a loro

Cinque anni dopo #MeToo, il mondo dell’arte pian pianino prova a porre rimedio ad alcune delle enormi disuguaglianze che ancora colpiscono le artiste. Negli ultimi mesi diverse grandi gallerie hanno reclutato donne di alto profilo, alcune non più giovanissime. È il caso, per esempio, di Sonia Boyce (1962), Zineb Sedira (1963) e Acaye Kerunen (1981), tutte ingaggiate nel periodo precedente o immediatamente successivo alla presentazione dei loro padiglioni alla Biennale di Venezia, quest’anno molto incentrata sulle donne (dei 213 artisti presenti nella mostra della curatrice Cecilia Alemani, gli uomini sono 21).
Boyce è ora rappresentata nel Regno Unito dalla Simon Lee Gallery di Londra; Sedira è entrata a far parte della Goodman Gallery, che la rappresenta in Sudafrica, nel Regno Unito e negli Stati Uniti; mentre Kerunen ha firmato con le megagallerie Pace e Blum & Poe e con la viennese Galerie Kandlhofer.
La Stephen Friedman Gallery ha invece da poco assunto Anne Rothenstein, scoperta su Instagram, e Caroline Coon, attivista, giornalista ed ex manager del gruppo rock The Clash. Entrambe sulla settantina, non erano mai state rappresentate da una galleria.
Se queste aggiunte ai «roster» dei mercanti contribuiscono in qualche modo a correggere gli squilibri di lunga data nel mercato, nella maggior parte delle gallerie le discrepanze continuano a essere enormi, tanto in termini di rappresentanza che di prezzi. Dei 47 artisti elencati sul sito web di Simon Lee, le donne sono 16. Idem alla Goodman Gallery (su 48 artisti). Dei 119 artisti rappresentati da Pace, le donne sono 35; alla Blum & Poe sono 19 su 60; sette su 15 artisti quelle della Galerie Kandlhofer; alla Stephen Friedman Gallery, la proporzione è di 13 donne su 35 artisti rappresentati.
Il divario dei prezzi è altrettanto sconfortante e negli ultimi cinque anni non sembra essere migliorato di molto. Un’indagine condotta di recente dall’artista e curatrice britannica Helen Gørrill sui prezzi di 5mila dipinti venduti all’asta in tutto il mondo ha rilevato che per ogni sterlina (1,15 euro) che un artista maschio guadagna per la sua opera, una donna guadagna appena 10 pence.
Gørrill, autrice nel 2018 di Women Can’t Paint. Gender, Glass Ceiling and Values in Contemporary Art (Bloomsbury Visual Arts) ha anche scoperto che gli «uomini facoltosi» sminuiscono sistematicamente le opere firmate da donne, ma create dall’intelligenza artificiale, dimostrando che vi è un evidente stigma nei confronti delle artiste.
«Sono sconcertata, rileva Gørrill. Nel mercato dell’arte contemporanea abbiamo un divario retributivo di genere del 90%. Questo dato è paragonabile solo al divario retributivo di genere nel calcio. Se il mondo dell’arte è così progressista come dice di essere, allora deve stare al passo con i tempi e fare dei cambiamenti per diventare un’istituzione più equa? Attualmente la sua visione è molto vittoriana».
L’effetto museo
Le ricerche di Gørrill e di altri, tra cui le giornaliste Charlotte Burns e Julia Halperin (il cui nuovo rapporto sulla rappresentazione delle donne artiste nei musei e sul mercato uscirà il mese prossimo), hanno sempre dimostrato una correlazione diretta tra le mostre nei musei e i prezzi delle opere d’arte.
In effetti, non sfugge agli osservatori che le istituzioni di Londra e di Venezia attualmente espongono un numero sproporzionato di artisti maschi: Lucian Freud, William Kentridge, Anish Kapoor, Joseph Beuys, Anselm Kiefer, Markus Lüpertz e Georg Baselitz (il quale, com’è noto, disse che le artiste non sono riconosciute semplicemente perché «non sanno dipingere molto bene»).
«Quando gli artisti sono collezionati dai musei, rileva Gørrill, il valore delle loro opere tende a salire sul mercato secondario e primario. Collezionando soprattutto opere di uomini, i musei che contano contribuiscono a creare una disuguaglianza di genere nella ricchezza. Senza la legittimazione dei musei, le gallerie spesso perdono interesse per le donne, soprattutto con l’avanzare dell'età, perché spesso le donne sono ancora giudicate commercialmente, per il loro aspetto anziché per le opere che creano».